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Cinema

The Good Place: istruzioni per accedere al Paradiso

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Ma senza andare troppo lontano, potrebbe tornarvi utile questa serie anche se state cercando di trovare un modo per cambiare qualcosa nella vostra vita o dargli un pizzico di senso. 

Per questo ho deciso di parlarne qui, senza spoiler, ma cercando di restituirvi nel modo più genuino possibile cosa lascia la visione di questa serie. E se per caso l’avete già vista, un ripasso fa sempre bene all’anima. 

The Good Place è una serie ambientata in quello che comunemente viene immaginato come Paradiso. Inizia con il risveglio di Eleonor nel Good Place, lo spazio utopico in cui finiscono tutte le persone che hanno totalizzato un punteggio positivo, determinato dalle buone azioni fatte nella vita terrena.

Nella vita terrena Eleonor non era affatto un buon esempio e capisce subito che la sua presenza nella parte buona è frutto di un errore. Tace e nasconde l’equivoco per paura di finire nella parte cattiva (si vedrà anche quella), provando in tutti i modi a reinventarsi come una persona eticamente buona per poter rimanere nella parte buona. Lo farà grazie ai suoi compagni di avventura il cui legame, puntata dopo puntata, tesserà la trama di una serie che indaga sull’etica, su cosa siano il bene e il male, sull’essenza delle giuste scelte e infine sul senso della vita.

Sono temi complessi di cui si riesce a captarne l’essenza in modo naturale, nonostante le risposte vengano ricercate nella filosofia di Aristotele, Kant e tanti altri. The Good Place si assapora in modo leggerissimo imparando, tra una puntata e un’altra, una lezione sull’etica e sulla morale umana. La serie affronta il senso della vita e anche quello delle nostre scelte che ci identificano come buoni o cattivi, ma ancor di più, fa riflettere sulle regole etiche del mondo in cui viviamo.

La regola per essere buoni in modo assoluto non esiste

L’accesso al Good Place è regolamentato da un sistema a punti: più buone azioni fai più ne accumuli per accedervi. Ma viviamo in un mondo in cui ogni scelta, anche quella più ingenuamente buona, può favoreggiare inconsapevolmente dei meccanismi considerati cattivi. Pensate ad esempio all’idea di voler mangiare un avocado al posto di una fetta di carne, con lo scopo di voler attuare un comportamento giusto per salvaguardare una specie animale.

Eppure questa scelta, per quanto possa sembrare eticamente corretta, favorisce un altro circolo indirettamente nocivo, perché la coltivazione dell’avocado è causa di sfruttamento della popolazione e dell’ambiente. Così la morale è che, inconsapevolmente, anche mangiare un avocado rappresenterebbe una scelta cattiva. Anche non fare alcuna scelta potrebbe determinare conseguenze spiacevoli per qualcun altro. Dunque, secondo questo meccanismo diventerebbe davvero difficile chiedersi quale sia la scelta giusta da compiere per essere buoni in modo assoluto.

Il determinismo

Nella serie si parla molto di determinismo, quella concezione filosofica che si contrappone al libero arbitrio, per cui ogni scelta è necessariamente causata. Ma allora quale sarebbe il senso di vivere la vita facendo scelte basate non sugli ideali ma sulla paura delle conseguenze? Si finirebbe a voler diventare buoni soltanto per ricevere approvazione da un sistema che ha dettato delle regole impossibili da controllare, perché di fatto lo stesso sistema che definisce un punteggio positivo o negativo in modo assoluto è sbagliato.

La vita non può essere considerata come un esame a punti

La serie ci insegna che in verità non esiste nessuna regola per essere buoni in modo assoluto. Come dice Michael, uno dei protagonisti più amati della serie, quello che conta non è che le persone siano buone o cattive, ma quanto cerchino di essere migliori oggi più di quanto non lo siano state ieri. Quindi non esiste un modo per essere buoni in modo assoluto, ma piuttosto esistono gli ideali in cui credere e lottare, correndo anche il rischio di sbagliare. Una regola però esiste, fare del bene è un’azione che non deve avere un’aspettativa di ritorno, se fai del bene devi farlo senza secondi fini.

Le seconde opportunità possono renderci migliori

The Good Place ci insegna che è possibile ricominciare da zero. Ogni persona può avere la chance di cambiare e diventare migliore, se le viene data l’opportunità di farlo. Non si nasce buoni o cattivi, molto spesso è il contesto a condizionarci e determinarci come tali. Il sistema dell’aldilà verrà rivoluzionato dai protagonisti che si batteranno affinché chiunque possa avere una seconda chance. Quanti errori vengono commessi senza comprendere fino in fondo il perché? Quante volte si sbaglia senza neppure capire di averlo fatto? Un protagonista della serie ad esempio viene giudicato come cattivo per aver commesso dei crimini. Si penserebbe che sia eticamente giusto condannarlo come colpevole. Ma la causa delle sue azioni è determinata dal contesto di povertà in cui è nato. Naturalmente è giusto pagare le conseguenze dei propri errori, ma sinceramente, quanto è difficile riuscire ad essere buoni in un contesto in cui per sopravvivere ti è stato insegnato che l’unica via è commettere crimini? Non sempre si hanno gli strumenti per capire quali siano le conseguenze delle nostre azioni ed essere giudicati per l’azione senza tener conto del contesto è ingiusto. Per questo The Good Place insegna il prezioso dono delle seconde opportunità, ovvero poter ripetere un’esperienza, ma avendo gli strumenti per una comprensione etica dell’errore, per poter agire diversamente, in modo migliore. In questo insegnamento entra in gioco anche il potente ruolo dell’amicizia. I protagonisti della serie finiranno per migliorarsi e lo faranno proprio in virtù della loro amicizia nata nell’aldilà. L’affetto e il supporto delle persone amiche ci aiutano ad essere persone migliori con il loro buono esempio. 

La felicità non è il vero happy ending

Tutti pensiamo al Paradiso come un posto determinato dalla felicità. Eppure, vedremo nella serie, che anche la felicità moltiplicata all’infinito non riuscirà ad appagare le anime dei protagonisti.  Del resto, immaginate di poter sempre  avere tutto quello che desiderate, per ogni giorno della vostra vita all’infinito. Vivere sempre e solo con la certezza della felicità non è la risposta al senso della vita. Come dirà Ipatia “Quando la perfezione dura per sempre ti va in pappa il cervello”. Ed eccoci così giunti alla fine, al senso della vita, che non viene riconosciuto nel concetto di felicità. Cosa manca per sentirsi appagati, per permettere alle nostre esistenze, persino nell’aldilà, di sentirsi realizzate? Una fine, l’esistenza di un ulteriore spazio ignoto che porterà finalmente i protagonisti dell’aldilà ad apprezzare ogni singolo istante del presente, spingendoli a superare i propri limiti.

Si arriva così all’essenza di tutto, il tutto che, seppure ultraterreno, ha necessariamente bisogno di una sua fine per la sua realizzazione. Fine che in qualche modo vedremo avere una continuità nel ricongiungimento con l’universo. Questa parte però la capirete solo vedendo tutta la serie. Così come capirete, alla fine di ogni cosa, che lasciare andare è il più grande atto di amore (spoiler: quando finirete la serie piangerete).

Questa serie vi darà la forza di essere migliori e di aiutare gli altri ad esserlo. 

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Le Giornate del cinema per la scuola

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Al via le Giornate nazionali del cinema per la scuola: l’inaugurazione con il Sottosegretario Borgonzoni

La senatrice aprirà lunedì 4 novembre le Giornate nazionali del cinema per la scuola 2024, promosse dal Ministero dell’Istruzione e del Merito e dal Ministero della Cultura in collaborazione con Anec

Sarà la sottosegretaria alla Cultura, Lucia Borgonzoni, ad aprire lunedì 4 novembre le Giornate nazionali del cinema per la scuola 2024, promosse dal Ministero dell’Istruzione e del Merito e dal Ministero della Cultura in collaborazione con Anec (Associazione Nazionale Esercenti Cinematografici), nell’ambito del Piano nazionale cinema e immagini per la scuola. Per il secondo anno consecutivo, docenti e dirigenti scolastici di tutta Italia si riuniranno a Palermo, presso i Cantieri Culturali alla Zisa, trasformati fino al 6 novembre in una grande “Città del cinema per la scuola”. Il programma prenderà avvio alle 15:00 con la cerimonia inaugurale al Cinema De Seta, promossa dal Ministero dell’Istruzione e del Merito e dal Ministero della Cultura.

L’inaugurazione con il vice ministro

La cerimonia sarà aperta dai saluti del sottosegretario alla Cultura, Lucia Borgonzoni, e vedrà la partecipazione del direttore generale della Direzione Generale per la Comunicazione e le Relazioni Istituzionali del Mim, Giuseppe Pierro, e di Bruno Zambardino, referente per il Piano Nazionale Cinema per la Scuola presso la Direzione Generale Cinema e Audiovisivo del Mic, che illustreranno le novità del Piano Cips. Alle 16:30, avrà luogo la presentazione dei film in uscita destinati al pubblico scolastico, a cura di Circuito Cinema Scuola e delle case di produzione e distribuzione Universal Pictures e Warner Bros, che presenterà il suo ultimo film d’animazione: Buffalo Kids di Juan Jesús García Galocha e Pedro Solís García (Spagna 2024, 93′), uscito nelle sale il 31 ottobre.

Alle 20:30 si terrà l’evento di punta della prima giornata: la presentazione in anteprima nazionale del film Criature (Italia 2024) di Cécile Allegra, tratto dall’omonimo romanzo della stessa autrice e previsto nelle sale dal 5 dicembre. Al Cinema De Seta, lunedì sera, sarà presente la regista Cécile Allegra, accompagnata da un collegamento in diretta con l’attore protagonista Marco D’Amore, noto per il suo ruolo nella serie Gomorra.

Fonte: cinecittanews.it

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REAL al Festival dei Popoli

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‘REAL’, al Festival dei Popoli l’anteprima del film di Adele Tulli

Una produzione Pepito Produzioni e FilmAffair con Rai Cinema e Luce Cinecittà in collaborazione con Les Films d’Ici. In sala dal 14 novembre con Luce Cinecittà

Arriva nei cinema dopo l’acclamata prima mondiale all’ultimo Festival di Locarno e il Premio della Giuria al Festival del Film di Villa Medici dedicato al rapporto tra cinema e arti contemporanee, REAL, il nuovo film di Adele Tulli. Real sarà presentato in anteprima al 65. Festival dei Popoli, il più antico appuntamento del cinema documentario d’Europa, domenica 3 novembre alle 19.30 al Cinema La Compagnia di Firenze, alla presenza della regista.

Dopo il successo della sua opera prima Normal (presentato alla Berlinale, vincitore della Menzione Opera Prima ai Nastri d’Argento e acclamato in numerosi festival internazionali), Real sbarca sugli schermi il 14 novembre, distribuito da Luce Cinecittà. Il film è prodotto da Pepito Produzioni e FilmAffair con Rai Cinema e Luce Cinecittà, in collaborazione con Les Films d’Ici. La distribuzione internazionale è affidata a Intramovies.

Adele Tulli scrive e dirige un nuovo viaggio visionario, poetico e inatteso dentro un mondo in cui siamo quotidianamente immersi, talmente abituale da non farci più rendere conto di quanto sia in realtà sconosciuto ed estraniante: il mondo digitale. Una realtà che ha rivoluzionato le vite di tutti e che il documentario esplora con lenti tecnologiche, creative e relazionali. Con uno sguardo inedito e curioso, Real ci porta in un territorio ineffabile, alieno e al contempo familiare.

Scritto e diretto da Adele Tulli, REAL vede la fotografia di Clarissa Cappellani e Francesca Zonars, il montaggio di Ilaria Fraioli e Adele Tulli, le musiche originali di Andrea Koch e la produzione creativa di Laura Romano. È prodotto da Agostino Saccà per Pepito Produzioni, Valeria Adilardi, Luca Ricciardi, Laura Romano e Mauro Vicentini per FilmAffair, in collaborazione con Charlotte Uzu di Les Films d’Ici.

La sinossi di Real

Reale [dal lat. mediev. realis, derivato di res “cosa”] – 1. Che è, che esiste veramente, effettivamente e concretamente. La nostra concezione comune di “realtà” era fatta di oggetti tangibili, di relazioni corporee, di esperienze ed eventi in spazi fisici. Tuttavia, un processo inarrestabile di accelerazione digitale ha trasformato radicalmente il nostro pianeta, le nostre società e noi stessi: i dispositivi digitali non sono più semplici strumenti, ma porte d’accesso a una nuova realtà. I nostri smartphone e computer ci conducono in un universo aumentato in crescita esponenziale, che esperiamo quasi sempre senza contatto fisico. Un mondo digitale dove trascorriamo la maggior parte del nostro tempo, cercandovi felicità, soddisfazione, rapporti, conoscenza e nuove esperienze. Ma allora, cosa è oggi ‘reale’?

R E A L è un viaggio filmico, visionario e coinvolgente nel mondo disincarnato della rete, un multiverso digitale parallelo in cui ogni cosa esistente è trasformata dalla fisica degli atomi alla logica dei bit. È un documentario creativo che esplora la trasformazione dell’esperienza umana nell’era digitale, facendo luce sui molti aspetti, a tratti perturbanti, della vita iperconnessa: i protagonisti – umani, robotici, virtuali – affrontano relazioni digitali, lavori virtuali, cybersessualità, abitazioni e città futuristiche, automatizzate e sorvegliate. Raccontano una cultura dell’autorappresentazione, di nuove dipendenze e patologie, di alienazione e isolamento, ma anche di identità libere dai confini fisici del corpo.

R E A L adotta uno sguardo sperimentale, utilizzando poeticamente le stesse tecnologie che definiscono il mondo digitale: visori, webcam, smartphone, videocamere di sorveglianza e sguardi meccanici che ci accompagnano in un nuovo modo di vivere la realtà. Senza risposte o giudizi, ma con la curiosità di uno sguardo che esplora un nuovo pianeta, Real ci conduce al di là e al di qua di un confine incerto.

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Pupi Avati e il conformismo

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Pupi Avati, o “l’anticonformismo del conformismo”

La presentazione del volume ‘Pupi Avati fuori dal cinema italiano’ al Museo Etrusco di Roma, alla presenza dei fratelli Avati. Steve Della Casa intervista il regista e l’autore del libro, Massimiliano Perrotta

“Il mio libro inizia con una cena a casa di Laura Betti, dove Pupi Avati era appena arrivato da Bologna con due film che erano andati male. E proprio lì, dove c’erano Bellocchio, Bertolucci, Moravia, Pasolini… gli scappò detto ‘io sono democristiano’: la cosa più conformista, che però in quel consesso coincideva col massimo dell’eresia. Su questo paradosso, su questa contraddizione, lui ha costruito la sua carriera e io ho costruito il mio libro”.

Così Massimiliano Perrotta presenta al pubblico il suo Pupi Avati fuori dal cinema italiano in una gremita Sala della Fortuna del Museo Etrusco di Villa Giulia a Roma. Una biografia decisamente sui generis, appena uscita con Edizioni Sabinae, che in otto capitoli raccoglie altrettanti articoli già pubblicati dall’autore catanese sull’’Huffington Post’. Accanto a lui il regista, fresco della Laurea ad Honorem in Italianistica appena conferitagli all’Università Roma Tre, mentre in prima fila siede l’inseparabile fratello, Antonio Avati.

A moderare l’incontro è Steve della Casa, critico cinematografico e direttore artistico, storico conduttore radiofonico di ‘Hollywood Party’ nonché regista, autore e Conservatore della Cineteca Nazionale.

L’anticonformismo del conformismo è la chiave di lettura che il libro dà alla carriera di Pupi Avati”, rimarca Della Casa, dopo aver presentato il regista, accolto da un lungo applauso, come ‘il più grande affabulatore che ho conosciuto nella mia carriera’: “una carriera che ha parecchi punti che sorprendono, come dimostra il volume stesso. Ad esempio quando qualche anno fa ho scoperto che gran parte dell’ultimo film di Pasolini, Salò, è stato scritto da Pupi Avati, rispetto ai suoi lavori successivi mi sembrava una cosa eccentrica. Invece poi non lo è affatto. Questo libro è molto interessante e controcorrente, perché è una biografia non esaltatoria del soggetto e non ha un’esigenza di completezza: racconta un preciso punto, la posizione eccentrica di Pupi Avati all’interno della galassia del cinema italiano”.

“Il libro di Massimiliano (Perrotta, ndr) apre con la storia di quella cena, ma non è che io sono arrivato là e ho detto così, dal nulla, ‘sono democristiano’”, precisa ridendo Pupi Avati, che prende la parola confermandosi esattamente nel ruolo in cui è stato presentato e snocciolando anche in questa occasione decine di aneddoti più che divertenti sui suoi 85 anni di vita, di famiglia e di cinema, spesso mimando il racconto la voce con vere e proprie gag.

“Quello era il risultato di una serie di considerazioni di noi che arriviamo a Roma (io e mio fratello Antonio, ndr) con due ‘cadaveri’ di insuccessi, come allora si diceva”, continua il regista. “Anche dietro alla stessa scelta di questo piccolo nome, ‘Pupi’ Avati, c’era una cultura, un mondo, dei genitori, dei nonni, delle zie, la campagna vissuta nel primo dopoguerra… C’erano le favole contadine terrorizzanti che ci raccontavano prima di andare a letto nelle camere scricchiolantissime, come la favola del ‘prete donna’… E poi c’era la chiesa, l’educazione cattolica preconciliare, piena di inferno e di diavolo dappertutto. Ecco, avendo tenuto dentro di me con riconoscenza quell’immaginario che si è andato a formare laggiù, in quel tempo remoto, con una grande nostalgia… Perché allora non c’era niente, a parte i campi… E allora riempivi quel niente con l’immaginazione, col racconto orale, che era fondamentale. Magari alcuni dei miei parenti erano pressoché analfabeti, non avrebbero mai saputo scrivere… ma sapevano raccontare. E saper raccontare – come sapeva fare nostra madre, una narratrice fantastica, che da quando salivamo in macchina da via Saragozza a Bologna fino a Roma non si interrompeva un minuto – era una cosa preziosissima. Questa è l’Italia dalla quale vengo, che non aveva quasi nulla, ma aveva tantissimo, perché ti permetteva di immaginare, che oggi è una cosa quasi proibita”.

Tornando al libro, anche per chi non abbia letto in precedenza i suoi articoli online, lo stile del racconto di Perrotta appare esplicito fin dalle prime pagine e non lesina – ora qua ora là – personalissimi epiteti ai grandi maestri della settima arte, destinati a far discutere. Ma anche nei titoli scelti per dividere il volume: si va da Un democristiano nel salotto – dove si racconta la famosa cena di cui sopra – per poi passare a Il Truffaut dell’Italietta, La poesia democristiana, o Agli antipodi del fighettismo, all’interno del quale, ad esempio, l’autore scrive: “Glamour: ecco una parola che non si addice al cinema di Pupi Avati. Egli si colloca agli antipodi del fighettismo artistico e di quello sociale (…). Mentre il fighettismo idolatra i vincenti, Avati simpatizza per i candidi, per gli insicuri, per gli sfigati”.

“Pupi Avati è fuori dal cinema italiano per una ontologica estraneità agli schemi culturali che nell’ultimo mezzo secolo lo hanno dominato”, scrive ancora Perrotta nel primo capitolo: “non ha fede nella storia, non crede nel progresso, non lotta contro il potere, non gli interessano i temi sociali, non si batte per le nobili cause, non vuole denunciare nulla, non racconta la crisi dell’Occidente, non segue le mode, non ostenta citazioni, non è laico. Per la stessa ragione il cinema italiano ama poco Pupi Avati: lo tratta con condiscendenza, premia raramente i suoi film, fatica a riconoscergli lo status di autore con la a maiuscola. (…). Il cinema di Pupi Avati non va rivalutato o sdoganato: va letto con occhi vergini, con occhi postnovecenteschi, con gli occhi di domani”.

“Il cinema di Pupi è personalissimo, senza quella aggressività che altri autori cercano di imporre sulla materia narrata e sulla realtà con la loro cifra”, continua l’autore del libro in sala. “Anche nei riguardi del film horror, lui lo fa a tutti gli effetti, rispettandone i codici ma poi arricchendone il contesto con il suo sguardo. Anche in Salò, certo, c’è la sua firma, ma discreta: non c’è nulla che lui faccia, anche per la tv, che non rispetti quel che gli viene chiesto, e che però sia al tempo un film di Pupi Avati a tutti gli effetti, con tutte le sue cifre stilistiche, ma sempre con discrezione, con quel senso della misura che secondo me è quello che, se da un lato lo rende amabile, lo ha visto penalizzato da parte della critica. Ma il tempo secondo me dà ragione a lui”.

“L’argomento del film di genere, presente nel libro, è una preoccupazione che Pupi ha a livello di prospettiva”, precisa Steve Della Casa. “È molto attento anche a quello che avviene anche dal punto di vista commerciale nel cinema italiano, e alla sua capacità di trovare un pubblico. Praticare il cinema ‘di genere’ è stata una caratteristica del cinema italiano negli anni del suo massimo splendore. Diceva Giuliano Montaldo che se si potevano fare i film di Bertolucci e Pasolini era perché si facevano quelli di Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, che incassavano, pensate, quasi il 10% del totale nel cinema italiano, consentendo agli altri di sperimentare. E poi c’era un’osmosi tra cinema d’autore e di genere, che si confrontavano continuamente. Nell’horror che fa Pupi Avati, ad esempio, gli effetti speciali hanno un ruolo piccolissimo, il suo è un horror di atmosfera: la paura ti arriva da altre cose”.

A chiudere la pubblicazione, un’interessante ‘raccolta nella raccolta’ tratta da libri, riviste e/o quotidiani, intitolata Fior da Fiore, che a partire dal 1970 fino al 2024 riporta i punti di vista delle più note firme del grande schermo nei confronti del cinema di Pupi Avati: Miccichè, Farassino, Bignardi, Bertetto, Caprara (Valerio), Anselmi, Fofi, Morandini, Ferzetti (Fausto), Rondolino, Tornabuoni, Crespi, Sarno, Kezich, Nepoti, Brunetta, Mereghetti, Rondi, Mancuso, Salvagnini, Giusti, Zappoli e Siniscalchi.

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