Editoriali

Il lavoro come via per la felicità!

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Un numero sempre più alto di giovani si pone alcune domande: perché investire energie ed impegno se già sa già si sa che non si troverà un lavoro stabile e soprattutto remunerativo? Perché studiare se non si hanno speranze di trovare un lavoro che possa essere fonte di soddisfazione. Può il lavoro effettivamente essere la leva di sviluppo dei propri talenti, di realizzazione della propria identità e non solo un mezzo di sopravvivenza, più o meno agiata? Da queste domande ne è nato un dialogo tra Paolo Iacci, esperto di risorse umane, e Umberto Galimberti, filosofo, accademico e psicoanalista, su un tema che oggi più che mai tocca ciascuno di noi. Ne è nato un libro dal titolo: “Dialogo sul lavoro e la felicità” tratta la complessità del mondo del lavoro oggi, chiedendo se possa essere uno strumento di realizzazione della propria identità, oltre che un mezzo di sopravvivenza. La sinossi del testo è chiara: “per gli antichi greci il primo passo verso la felicità consisteva nel conoscere la propria natura per poterla realizzare. L’attuale mondo del lavoro – regolato dal mercato e basato su logiche di mera efficienza produttiva – impedisce all’uomo di abbracciare la totalità del processo di produzione di cui è parte e di comprendere la valenza etica del suo impiego. A queste condizioni, il lavoro non può essere un mezzo per realizzare il proprio potenziale e raggiungere la felicità. A partire da richiami letterari e filosofici, la discussione presentata in questo libro non offre facili soluzioni, ma spunti per riflettere sull’attuale sistema di produzione e sugli ostacoli che impediscono all’uomo di realizzare sé stesso ed essere felice”. Galimberti e Iacci non pretendono di avere la verità in tasca, ma di indurre una riflessione profonda, attraverso uno scambio quanto mai stimolante, illuminante, provocatorio, educativo.  Dalla lettura del testo ci si convince sempre di più che in una società come quella odierna, dove milioni di persone pensano di costruire la loro identità attraverso il numero di like che ottengono dai social, i due autori sentono forte l’esigenza di educare alla sensibilità, ai sentimenti, ad una visione della vita fatta tutt’altro che di sicurezze. Lo riporta il giornale delle scienze psicologiche: “State of mind”, indicando  le agenzie primarie: la famiglia e la scuola. Iris Gargano scrive: “..ai bambini bisogna dire la verità, spiegare che nella vita non tutto è garantito e che non ci sarà per sempre il genitore a risolvere i problemi; un’adeguata educazione emotiva ridurrebbe, forse, questa sperimentazione di angoscia e insignificanza nei giovani. La scuola, dal canto suo, non dovrebbe formare “futuri diplomati parcheggiati all’università”, ma insegnare che i libri, i contenuti, servono per imparare a pensare, a sviluppare l’abilità del pensiero critico per andare oltre ai significati evidenti delle cose; ad avere delle idee proprie, a non diventare vittime di un sistema o di ritmi imposti dall’esterno”. E infine, c’è bisogno di educazione ai sentimenti anche nelle organizzazioni, poiché, come scrisse il filosofo Ludwig Wittgeinstein: “il talento è una fonte da cui sgorga acqua sempre nuova. Ma questa fonte perde ogni valore se non se ne fa il giusto uso”.

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