Cinema
Il sapere, la curiosità, il desiderio sono l’essenza della vita
Ho avuto il piacere di chiacchierare qualche giorno fa con Luigi Lo Cascio che di recente ha vinto il David di Donatello come miglior attore non protagonista nel film “Il Traditore” di Marco Bellocchio, incentrato sulla vita di Tommaso Buscetta. Luigi ha voluto dedicare il premio allo zio Luigi Maria Burruano, recentemente scomparso: “Volevo dedicare il premio al grandissimo attore che ci ha lasciato da poco che è Luigi Maria Burruano che è mio zio, zio Gigi, che era mio padre nei ‘Cento Passì”.
Lo Cascio che nel film di Bellocchio interpreta Salvatore Contorno, mafioso affiliato a Cosa Nostra molto vicino a Tommaso Buscetta, ha vinto il David di Donatello nel giorno in cui ricorreva il 42° anniversario dell’uccisione di Peppino Impastato, interpretato dallo stesso nel famoso film “I cento passi”. Film quest’ultimo con cui vinse il suo primo David (10 aprile 2001, 46° edizione del David di Donatello), film che ha segnato tutta la sua carriera cinematografica, piena di successi.
Quasi un fil rouge che lega quel riconoscimento a questo.
“I due riconoscimenti hanno sicuramente un filo rosso che li lega; sono due storie importanti, due fatti accaduti che hanno segnato profondamente la nostra terra, le nostre coscienze e sono stati momenti cruciali per Palermo e per la Sicilia.
Sono due film questi che, in maniera diversa, mi hanno catturato: il primo, “I Cento Passi”, in maniera totale sia a livello qualitativo che quantitativo: questo succede quando il contesto in cui si trova ad agire un attore cioè il film, la storia che racconta, il personaggio che bisogna interpretare, è qualcosa di fortemente sentito e di fortemente partecipato emotivamente, intellettualmente, culturalmente ed eticamente. I film di cui parleremo sono stati riconosciuti all’esterno come qualcosa di importante, hanno avuto un impatto notevole sugli spettatori, sui critici.”
Non sono poche le persone che in Luigi Lo Cascio hanno identificato Peppino Impastato. Molti lo hanno conosciuto con “I Cento Passi”. Tu hai dovuto immergerti nei suoi panni; è stato difficile interpretarlo?
“Questo capita nel cinema quando si interpreta un personaggio e si è rapiti totalmente dalla storia e dal ruolo che si interpreta; ecco che si verifica il cortocircuito per lo spettatore, che riconosce in me Peppino. Nel film di Marco Tullio Giordana ho avuto il vantaggio di non aver interpretato, prima di allora, altri personaggi, è stata la mia prima apparizione: il mio viso, la mia voce è stata per questo, ancor di più, associata a quella di Peppino.
Nei Cento Passi il mio apporto è stato sicuramente più importante. Ho dovuto tuffarmi, immergermi, sprofondare in questa materia che non conoscevo ancora bene; c’è stato un coinvolgimento intenso. Ho cercato di mettermi totalmente da parte e contemporaneamente di esserci totalmente; una cosa strana a dirsi, quasi un contraddittorio. Non è stato semplice, era il mio primo film ed anche espressivamente non avevo cognizione dei miei mezzi. Ma era talmente forte la storia, talmente belle le scene, talmente importanti le cose che dicevo che nonostante la mia inesperienza è venuta fuori una grande interpretazione.
Da parte mia è stato un grande impegno di conoscenza, di indagine, di studio; ho voluto e dovuto ascoltare tutti i programmi alla radio che aveva fatto Peppino, leggere tutti gli articoli che ha scritto, ripercorrere la sua esperienza di attivista culturale e politico, rileggere i suoi comizi, studiare i vari passaggi da quando ha fondato il giornalino “L’Idea Socialista” a quando si candida con il Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria (PSIUP); è stato emotivamente molto forte conoscere la madre, il fratello, la cognata, gli amici. E’ un film che ha avuto degli effetti, delle conseguenze: attraverso il suo esempio Peppino, con le sue convinzioni, con il suo furore, con la sua ansia di giustizia, con la sua voglia di protesta da un lato ma anche di proposta, ha mosso le coscienze e la sensibilità di molte persone. Ogni occasione, per Peppino, era buona per rivolgersi alla comunità.”
Meritevole ma totalmente differente la tua interpretazione nel film di Marco Bellocchio, dove hai interpretato Totuccio Contorno, il quale ebbe un ruolo cruciale nel maxiprocesso contro la mafia siciliana di Palermo. Ricordiamo il monologo interpretativo nell’aula bunker; quali gli strumenti utilizzati per ottenere una così precisa interpretazione?
“Nel film “Il Traditore” ho preferito concentrarmi e calarmi più che nell’interpretazione di Totuccio Contorno, personaggio molto particolare, dentro al racconto che ha a che fare con giornate cruciali per noi siciliani. Ho un ricordo del maxi-processo ancora nitido ed è stato per noi un evento quasi miracoloso, per quello che avevamo subito sino a quel momento. Facendo riferimento a quei giorni, ricordo che c’era un clima di inquietudine da un lato e di meraviglia, di stupore, dall’altro.
Per la prima volta dopo anni si aveva la sensazione che qualcosa stesse davvero cambiando, che finalmente vi erano delle persone dotate di coraggio e di un profondo senso del dovere, tale da denunciare, da contrastare il fenomeno mafioso in maniera decisa.
A differenza del film di Marco Tullio Giordana, nel film “Il Traditore” non ho avvertito l’esigenza di immergermi nell’interiorità di Totuccio Contorno, di capire cosa lui pensasse sentimentalmente.
Io non volevo imitare lui, mi sono fidato più del ricordo delle immagini che trasmisero alla Rai sul maxi-processo.”
Ritieni che i giovani siano stati contagiati dall’esempio di Peppino Impastato e siano oggi militanti della memoria o occorre un processo rieducativo, di coinvolgimento?
“Quello che riscontro quando vengo a Palermo, da dopo che è uscito il film, o quando incontro i giovani nelle università, nei licei, nei teatri, nei festival della legalità o del cinema o, semplicemente, quando incontro quelli che erano ragazzi in quegli anni e oggi sono quarantenni o poco più è che il film (I Cento Passi) ha avuto un impatto sulle persone, sui giovani di quel tempo; molti, dopo aver visto il film, sono stati plasmati dall’esempio di Peppino e hanno scelto di intraprendere i suoi passi iscrivendosi in giurisprudenza, scegliendo di fare i giornalisti, proprio perché sono stati toccati, contagiati. Il contagio è una delle cose più belle dell’arte. E noi, in qualità di attori e, spesso per il ruolo che ricopriamo, in qualità di educatori, in questo preciso momento storico in cui nei cinema e nei teatri ci si deve recare rispettando le dovute distanze, ci auguriamo di poter tornare presto a riscoprire queste forme di arte in cui occorre partecipare in tanti, in cui occorre affollare le sale. In cui tutti si sta insieme, tutti si guarda la stessa cosa e si cerca di raggiungere l’altro, di abbracciarlo, in cui ci si ‘contagia’ vicendevolmente, in cui lo spettatore cerca di raggiungere l’interiorità di un’opera. Per essere contagiati, plasmati, perché un’opera abbia delle conseguenze occorre, però, che una persona sia un terreno fertile: occorre che vi sia studio, quindi cultura, affinché si possa avere accesso all’arte, alla bellezza, a quella bellezza che ti sconvolge, che ti apre il mondo, che ti costringe a dare il meglio di te. Una persona che sta cercando il bello sta cercando il meglio, sta cercando qualcosa che lo avvicina agli altri.”
Cosa ti senti di dire ai giovani ragazzi che, invece, vogliono intraprendere la carriera dell’attore di teatro o di cinema?
“Occorre, oltre ad un attento studio della recitazione che rappresenta più la punta di un iceberg, un ampliamento dei propri orizzonti intellettuali, culturali, percettivi e delle esperienze. Non abbiamo più vite avventurose come un tempo però possiamo ricavare insegnamenti in successione da chi le avventure le ha fatte, ad esempio gli scrittori con la loro immaginazione, attraverso la lettura. Questo è necessario per interpretare al meglio anche i frammenti che si portano in scena. Studiare molto e sapere proporre qualcosa di personale, scrivere un proprio monologo. Bisogna avere molta curiosità, avere molto desiderio, non bisogna accontentarsi delle cose del contemporaneo, non avere diffidenza nei confronti delle cose del passato.”
Cinema
Le Giornate del cinema per la scuola
Al via le Giornate nazionali del cinema per la scuola: l’inaugurazione con il Sottosegretario Borgonzoni
La senatrice aprirà lunedì 4 novembre le Giornate nazionali del cinema per la scuola 2024, promosse dal Ministero dell’Istruzione e del Merito e dal Ministero della Cultura in collaborazione con Anec
Sarà la sottosegretaria alla Cultura, Lucia Borgonzoni, ad aprire lunedì 4 novembre le Giornate nazionali del cinema per la scuola 2024, promosse dal Ministero dell’Istruzione e del Merito e dal Ministero della Cultura in collaborazione con Anec (Associazione Nazionale Esercenti Cinematografici), nell’ambito del Piano nazionale cinema e immagini per la scuola. Per il secondo anno consecutivo, docenti e dirigenti scolastici di tutta Italia si riuniranno a Palermo, presso i Cantieri Culturali alla Zisa, trasformati fino al 6 novembre in una grande “Città del cinema per la scuola”. Il programma prenderà avvio alle 15:00 con la cerimonia inaugurale al Cinema De Seta, promossa dal Ministero dell’Istruzione e del Merito e dal Ministero della Cultura.
L’inaugurazione con il vice ministro
La cerimonia sarà aperta dai saluti del sottosegretario alla Cultura, Lucia Borgonzoni, e vedrà la partecipazione del direttore generale della Direzione Generale per la Comunicazione e le Relazioni Istituzionali del Mim, Giuseppe Pierro, e di Bruno Zambardino, referente per il Piano Nazionale Cinema per la Scuola presso la Direzione Generale Cinema e Audiovisivo del Mic, che illustreranno le novità del Piano Cips. Alle 16:30, avrà luogo la presentazione dei film in uscita destinati al pubblico scolastico, a cura di Circuito Cinema Scuola e delle case di produzione e distribuzione Universal Pictures e Warner Bros, che presenterà il suo ultimo film d’animazione: Buffalo Kids di Juan Jesús García Galocha e Pedro Solís García (Spagna 2024, 93′), uscito nelle sale il 31 ottobre.
Alle 20:30 si terrà l’evento di punta della prima giornata: la presentazione in anteprima nazionale del film Criature (Italia 2024) di Cécile Allegra, tratto dall’omonimo romanzo della stessa autrice e previsto nelle sale dal 5 dicembre. Al Cinema De Seta, lunedì sera, sarà presente la regista Cécile Allegra, accompagnata da un collegamento in diretta con l’attore protagonista Marco D’Amore, noto per il suo ruolo nella serie Gomorra.
Fonte: cinecittanews.it
Cinema
REAL al Festival dei Popoli
‘REAL’, al Festival dei Popoli l’anteprima del film di Adele Tulli
Una produzione Pepito Produzioni e FilmAffair con Rai Cinema e Luce Cinecittà in collaborazione con Les Films d’Ici. In sala dal 14 novembre con Luce Cinecittà
Arriva nei cinema dopo l’acclamata prima mondiale all’ultimo Festival di Locarno e il Premio della Giuria al Festival del Film di Villa Medici dedicato al rapporto tra cinema e arti contemporanee, REAL, il nuovo film di Adele Tulli. Real sarà presentato in anteprima al 65. Festival dei Popoli, il più antico appuntamento del cinema documentario d’Europa, domenica 3 novembre alle 19.30 al Cinema La Compagnia di Firenze, alla presenza della regista.
Dopo il successo della sua opera prima Normal (presentato alla Berlinale, vincitore della Menzione Opera Prima ai Nastri d’Argento e acclamato in numerosi festival internazionali), Real sbarca sugli schermi il 14 novembre, distribuito da Luce Cinecittà. Il film è prodotto da Pepito Produzioni e FilmAffair con Rai Cinema e Luce Cinecittà, in collaborazione con Les Films d’Ici. La distribuzione internazionale è affidata a Intramovies.
Adele Tulli scrive e dirige un nuovo viaggio visionario, poetico e inatteso dentro un mondo in cui siamo quotidianamente immersi, talmente abituale da non farci più rendere conto di quanto sia in realtà sconosciuto ed estraniante: il mondo digitale. Una realtà che ha rivoluzionato le vite di tutti e che il documentario esplora con lenti tecnologiche, creative e relazionali. Con uno sguardo inedito e curioso, Real ci porta in un territorio ineffabile, alieno e al contempo familiare.
Scritto e diretto da Adele Tulli, REAL vede la fotografia di Clarissa Cappellani e Francesca Zonars, il montaggio di Ilaria Fraioli e Adele Tulli, le musiche originali di Andrea Koch e la produzione creativa di Laura Romano. È prodotto da Agostino Saccà per Pepito Produzioni, Valeria Adilardi, Luca Ricciardi, Laura Romano e Mauro Vicentini per FilmAffair, in collaborazione con Charlotte Uzu di Les Films d’Ici.
La sinossi di Real
Reale [dal lat. mediev. realis, derivato di res “cosa”] – 1. Che è, che esiste veramente, effettivamente e concretamente. La nostra concezione comune di “realtà” era fatta di oggetti tangibili, di relazioni corporee, di esperienze ed eventi in spazi fisici. Tuttavia, un processo inarrestabile di accelerazione digitale ha trasformato radicalmente il nostro pianeta, le nostre società e noi stessi: i dispositivi digitali non sono più semplici strumenti, ma porte d’accesso a una nuova realtà. I nostri smartphone e computer ci conducono in un universo aumentato in crescita esponenziale, che esperiamo quasi sempre senza contatto fisico. Un mondo digitale dove trascorriamo la maggior parte del nostro tempo, cercandovi felicità, soddisfazione, rapporti, conoscenza e nuove esperienze. Ma allora, cosa è oggi ‘reale’?
R E A L è un viaggio filmico, visionario e coinvolgente nel mondo disincarnato della rete, un multiverso digitale parallelo in cui ogni cosa esistente è trasformata dalla fisica degli atomi alla logica dei bit. È un documentario creativo che esplora la trasformazione dell’esperienza umana nell’era digitale, facendo luce sui molti aspetti, a tratti perturbanti, della vita iperconnessa: i protagonisti – umani, robotici, virtuali – affrontano relazioni digitali, lavori virtuali, cybersessualità, abitazioni e città futuristiche, automatizzate e sorvegliate. Raccontano una cultura dell’autorappresentazione, di nuove dipendenze e patologie, di alienazione e isolamento, ma anche di identità libere dai confini fisici del corpo.
R E A L adotta uno sguardo sperimentale, utilizzando poeticamente le stesse tecnologie che definiscono il mondo digitale: visori, webcam, smartphone, videocamere di sorveglianza e sguardi meccanici che ci accompagnano in un nuovo modo di vivere la realtà. Senza risposte o giudizi, ma con la curiosità di uno sguardo che esplora un nuovo pianeta, Real ci conduce al di là e al di qua di un confine incerto.
Cinema
Pupi Avati e il conformismo
Pupi Avati, o “l’anticonformismo del conformismo”
La presentazione del volume ‘Pupi Avati fuori dal cinema italiano’ al Museo Etrusco di Roma, alla presenza dei fratelli Avati. Steve Della Casa intervista il regista e l’autore del libro, Massimiliano Perrotta
“Il mio libro inizia con una cena a casa di Laura Betti, dove Pupi Avati era appena arrivato da Bologna con due film che erano andati male. E proprio lì, dove c’erano Bellocchio, Bertolucci, Moravia, Pasolini… gli scappò detto ‘io sono democristiano’: la cosa più conformista, che però in quel consesso coincideva col massimo dell’eresia. Su questo paradosso, su questa contraddizione, lui ha costruito la sua carriera e io ho costruito il mio libro”.
Così Massimiliano Perrotta presenta al pubblico il suo Pupi Avati fuori dal cinema italiano in una gremita Sala della Fortuna del Museo Etrusco di Villa Giulia a Roma. Una biografia decisamente sui generis, appena uscita con Edizioni Sabinae, che in otto capitoli raccoglie altrettanti articoli già pubblicati dall’autore catanese sull’’Huffington Post’. Accanto a lui il regista, fresco della Laurea ad Honorem in Italianistica appena conferitagli all’Università Roma Tre, mentre in prima fila siede l’inseparabile fratello, Antonio Avati.
A moderare l’incontro è Steve della Casa, critico cinematografico e direttore artistico, storico conduttore radiofonico di ‘Hollywood Party’ nonché regista, autore e Conservatore della Cineteca Nazionale.
“L’anticonformismo del conformismo è la chiave di lettura che il libro dà alla carriera di Pupi Avati”, rimarca Della Casa, dopo aver presentato il regista, accolto da un lungo applauso, come ‘il più grande affabulatore che ho conosciuto nella mia carriera’: “una carriera che ha parecchi punti che sorprendono, come dimostra il volume stesso. Ad esempio quando qualche anno fa ho scoperto che gran parte dell’ultimo film di Pasolini, Salò, è stato scritto da Pupi Avati, rispetto ai suoi lavori successivi mi sembrava una cosa eccentrica. Invece poi non lo è affatto. Questo libro è molto interessante e controcorrente, perché è una biografia non esaltatoria del soggetto e non ha un’esigenza di completezza: racconta un preciso punto, la posizione eccentrica di Pupi Avati all’interno della galassia del cinema italiano”.
“Il libro di Massimiliano (Perrotta, ndr) apre con la storia di quella cena, ma non è che io sono arrivato là e ho detto così, dal nulla, ‘sono democristiano’”, precisa ridendo Pupi Avati, che prende la parola confermandosi esattamente nel ruolo in cui è stato presentato e snocciolando anche in questa occasione decine di aneddoti più che divertenti sui suoi 85 anni di vita, di famiglia e di cinema, spesso mimando il racconto la voce con vere e proprie gag.
“Quello era il risultato di una serie di considerazioni di noi che arriviamo a Roma (io e mio fratello Antonio, ndr) con due ‘cadaveri’ di insuccessi, come allora si diceva”, continua il regista. “Anche dietro alla stessa scelta di questo piccolo nome, ‘Pupi’ Avati, c’era una cultura, un mondo, dei genitori, dei nonni, delle zie, la campagna vissuta nel primo dopoguerra… C’erano le favole contadine terrorizzanti che ci raccontavano prima di andare a letto nelle camere scricchiolantissime, come la favola del ‘prete donna’… E poi c’era la chiesa, l’educazione cattolica preconciliare, piena di inferno e di diavolo dappertutto. Ecco, avendo tenuto dentro di me con riconoscenza quell’immaginario che si è andato a formare laggiù, in quel tempo remoto, con una grande nostalgia… Perché allora non c’era niente, a parte i campi… E allora riempivi quel niente con l’immaginazione, col racconto orale, che era fondamentale. Magari alcuni dei miei parenti erano pressoché analfabeti, non avrebbero mai saputo scrivere… ma sapevano raccontare. E saper raccontare – come sapeva fare nostra madre, una narratrice fantastica, che da quando salivamo in macchina da via Saragozza a Bologna fino a Roma non si interrompeva un minuto – era una cosa preziosissima. Questa è l’Italia dalla quale vengo, che non aveva quasi nulla, ma aveva tantissimo, perché ti permetteva di immaginare, che oggi è una cosa quasi proibita”.
Tornando al libro, anche per chi non abbia letto in precedenza i suoi articoli online, lo stile del racconto di Perrotta appare esplicito fin dalle prime pagine e non lesina – ora qua ora là – personalissimi epiteti ai grandi maestri della settima arte, destinati a far discutere. Ma anche nei titoli scelti per dividere il volume: si va da Un democristiano nel salotto – dove si racconta la famosa cena di cui sopra – per poi passare a Il Truffaut dell’Italietta, La poesia democristiana, o Agli antipodi del fighettismo, all’interno del quale, ad esempio, l’autore scrive: “Glamour: ecco una parola che non si addice al cinema di Pupi Avati. Egli si colloca agli antipodi del fighettismo artistico e di quello sociale (…). Mentre il fighettismo idolatra i vincenti, Avati simpatizza per i candidi, per gli insicuri, per gli sfigati”.
“Pupi Avati è fuori dal cinema italiano per una ontologica estraneità agli schemi culturali che nell’ultimo mezzo secolo lo hanno dominato”, scrive ancora Perrotta nel primo capitolo: “non ha fede nella storia, non crede nel progresso, non lotta contro il potere, non gli interessano i temi sociali, non si batte per le nobili cause, non vuole denunciare nulla, non racconta la crisi dell’Occidente, non segue le mode, non ostenta citazioni, non è laico. Per la stessa ragione il cinema italiano ama poco Pupi Avati: lo tratta con condiscendenza, premia raramente i suoi film, fatica a riconoscergli lo status di autore con la a maiuscola. (…). Il cinema di Pupi Avati non va rivalutato o sdoganato: va letto con occhi vergini, con occhi postnovecenteschi, con gli occhi di domani”.
“Il cinema di Pupi è personalissimo, senza quella aggressività che altri autori cercano di imporre sulla materia narrata e sulla realtà con la loro cifra”, continua l’autore del libro in sala. “Anche nei riguardi del film horror, lui lo fa a tutti gli effetti, rispettandone i codici ma poi arricchendone il contesto con il suo sguardo. Anche in Salò, certo, c’è la sua firma, ma discreta: non c’è nulla che lui faccia, anche per la tv, che non rispetti quel che gli viene chiesto, e che però sia al tempo un film di Pupi Avati a tutti gli effetti, con tutte le sue cifre stilistiche, ma sempre con discrezione, con quel senso della misura che secondo me è quello che, se da un lato lo rende amabile, lo ha visto penalizzato da parte della critica. Ma il tempo secondo me dà ragione a lui”.
“L’argomento del film di genere, presente nel libro, è una preoccupazione che Pupi ha a livello di prospettiva”, precisa Steve Della Casa. “È molto attento anche a quello che avviene anche dal punto di vista commerciale nel cinema italiano, e alla sua capacità di trovare un pubblico. Praticare il cinema ‘di genere’ è stata una caratteristica del cinema italiano negli anni del suo massimo splendore. Diceva Giuliano Montaldo che se si potevano fare i film di Bertolucci e Pasolini era perché si facevano quelli di Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, che incassavano, pensate, quasi il 10% del totale nel cinema italiano, consentendo agli altri di sperimentare. E poi c’era un’osmosi tra cinema d’autore e di genere, che si confrontavano continuamente. Nell’horror che fa Pupi Avati, ad esempio, gli effetti speciali hanno un ruolo piccolissimo, il suo è un horror di atmosfera: la paura ti arriva da altre cose”.
A chiudere la pubblicazione, un’interessante ‘raccolta nella raccolta’ tratta da libri, riviste e/o quotidiani, intitolata Fior da Fiore, che a partire dal 1970 fino al 2024 riporta i punti di vista delle più note firme del grande schermo nei confronti del cinema di Pupi Avati: Miccichè, Farassino, Bignardi, Bertetto, Caprara (Valerio), Anselmi, Fofi, Morandini, Ferzetti (Fausto), Rondolino, Tornabuoni, Crespi, Sarno, Kezich, Nepoti, Brunetta, Mereghetti, Rondi, Mancuso, Salvagnini, Giusti, Zappoli e Siniscalchi.
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