Cultura
Giuseppe Francese: “Il gigante fragile” che vedeva ciò che altri temevano
Figlio di Mario Francese, continuò a indagare per conto suo vedendo l’ombra della mafia dietro ogni locale, negozio, attività: si tolse la vita il 3 settembre del 2002
Giuseppe Francese
Scriveva quello che nessun altro aveva il coraggio di vedere, di ascoltare, di dire.
«Mario Francese è morto perché ha detto ciò che non doveva dire – disse la Pm Laura Vaccaro durante la requisitoria del processo – secondo l’ordine stabilito da Cosa nostra, e ha scritto ciò che per i mafiosi non doveva essere scritto e portato alla coscienza di tutti».
La sera che il padre fu ucciso, il 26 gennaio 1979, Giuseppe Francese aveva solo dodici anni e si trovava in casa, attendeva che il padre rientrasse da lavoro. Sentì gli spari, che rimasero impressi per sempre nella sua memoria.
Diplomato in Ragioneria, decise di mettersi subito a lavorare, grazie anche alla legge rivolta ai familiari delle vittime della mafia. Posto di lavoro che negli anni gli creò qualche disagio, dovuto alle voci che si sentivano su di lui.
«Faccio parte di quella schiera di fortunati, almeno così ci considerano in tanti, che hanno avuto un posto di lavoro presso la pubblica amministrazione in qualità di orfani di vittime della mafia. “Categoria fortunata”, sì perché per entrare non abbiamo fatto alcun concorso, ma siamo stati assunti attraverso una legge nazionale. Ma c’è da chiedersi: quanti hanno fatto un concorso alla Regione? E quei pochi che lo hanno fatto non si sono rivolti a nessuno? I loro padri, magari: con le loro amicizie, a volte con le loro vere e proprie connivenze. Noi dobbiamo dire grazie solo ai nostri padri, morti da uomini in un mondo di quaquaraqua. E se gli altri sono invidiosi, fanno bene ad esserlo, perché pochi hanno avuto la fortuna di avere padri come il mio”.
Venne assunto dunque alla Regione, come funzionario agli Enti Locali. Nel lavoro Giuseppe viene ricordato come attento, meticoloso, integerrimo. Si è occupato a lungo di Ipab (Istituzioni di Pubblica Assistenza e Beneficenza): le sue segnalazioni venivano spesso messe a tacere.
«Mi dicevano “per favore non sollevi problemi“» Questo incarico fu per lui fonte di tormento. Incompreso e inascoltato, spesso anche emarginato, ha trovato un po’ di serenità solo quando lo trasferirono in un altro settore.
Giulio Francese, il fratello più grande, oggi Presidente dell’Ordine dei Giornalisti di Sicilia, con il quale ho avuto il piacere di colloquiare, lo ricorda come un ragazzo che amava vivere e circondarsi di persone che lo facessero stare bene; era single, estroverso, brillante.
Amava viaggiare, si è recato spesso in Paesi esteri, a Palermo frequentava come tutti i locali del centro storico, i pub, amava la musica. Poi questa vita lo ha stancato, ha sentito crescere il vuoto dentro, ha cercato argomenti più solidi. Scopre la passione per la scrittura, anche lui avrebbe voluto diventare un giornalista.
Comincia a scrivere alcuni articoli per il settimanale “L’Inchiesta Sicilia” diretto allora da Giulio Ambrosetti il quale, apprezzando la qualità e lo spessore delle inchieste che Giuseppe proponeva, gli chiese di collaborare. Comincia così a scrivere anche su altri quotidiani, vi sono suoi articoli su Repubblica Palermo, su Antimafia Duemila ed è grazie al suo lavoro d’inchiesta se oggi si conoscono gli scritti di Mario Francese.
Per conto de L’Inchiesta, si è occupato del caso dell’uccisione di Cosimo Cristina, un giornalista considerato scomodo perché indagava gli affari della mafia nei territori di Termini, Cefalù e Madonie, e che inizialmente venne considerato come un suicida.
Giuseppe si mise alla ricerca di informazioni e indagò a lungo, e scrisse anche un articolo dal titolo “Suicidato dalla mafia?”: una storia che fa ricordare quella di Peppino Impastato. Grazie al suo impegno, a Cosimo Cristina venne intitolata anche una piazza.
Giuseppe era brillante perché si interessava di questioni inerenti la vita sociale in generale. Nei suoi articoli si è occupato di lavoro minorile in Sicilia, soprattutto quello dei giovani immigrati: «Non riesco la notte nei pub a non guardare gli occhi profondi dei bambini di colore che cercano di vendere rose a chi con violenza li caccia. Ed io che mi occupo anche di minori immigrati so di non potere fare un cazzo per loro. Perché lo sfruttamento dei minori fa comodo a tanti».
Quando le pagine diventarono numerose formarono una raccolta dal titolo “Con i miei occhi”, gli stessi occhi con cui Giuseppe cercava la verità e la giustizia per papà Mario. Notevole il suo impegno antimafia, ricordava puntualmente tutte le vittime di mafia.
L’omicidio del padre fu per Giuseppe una ferita mai sanata, accompagnata sempre da una sete di giustizia e verità, soprattutto in seguito al fatto che il delitto venne inizialmente archiviato.
In lui si alternavano la rassegnazione e la rabbia, quella rabbia che darà nome ad uno dei suoi articoli più importanti: “Castelli di rabbia”.
Voglio riportarne un pezzo che evidenzia, a chiare lettere, l’angoscia che egli provava:
“Accadono cose che sono come domande. Passa un minuto, oppure anni, e poi la vita risponde. Intanto crescevo ma contemporaneamente cresceva dentro me, diventando sempre più grande, un immenso vuoto ed un’incredibile ansia di giustizia. Ammetto che per un breve periodo la sete di verità si è trasformata in rassegnazione per una giustizia assai lenta ad arrivare. Ma la rassegnazione presto si è trasformata in rabbia”.
“Già – continua – di “Castelli di rabbia” in questi quasi venti anni ne ho costruiti, e tanti. La mia rabbia cresceva e si alimentava soprattutto per certi comportamenti inspiegabili da parte di ‘amici’ e ‘colleghi’ di mio padre, che più di tutti avrebbero dovuto in qualche modo intervenire, fare qualcosa, lottare: invece, nulla. Dimenticato. Come se quel corpo martoriato in viale Campania non fosse mai esistito, come se quell’ uomo semplice, corretto, buono, ma nello stesso tempo forte e tenace, non lo avesse meritato. Ma cos’è che li bloccava? Paura? O c’era qualcos’altro?”
La ferita mai cucita venne riaperta con le dichiarazioni di un collaboratore di giustizia, definito da molti come non attendibile, ma per Giuseppe le sue parole diventarono l’inizio della ricostruzione dell’omicidio del padre. Giuseppe cominciò ad indagare per suo conto, ad approfondire, a raccogliere ogni informazione possibile.
Provò a vedere con gli occhi del padre e anche la famiglia lo seguì in questo meticoloso lavoro di indagine, alla ricerca di quella verità che sembrava non arrivare mai.
Cominciò a ricostruire quel delitto di mafia di cui nessuno voleva parlare, e lavorò duramente per trovare tutti i pezzi e metterli insieme. Solo nel 2000, dopo un’attesa durata vent’anni, il caso dell’omicidio del giornalista Mario Francese venne riaperto. E fu proprio grazie al figlio Giuseppe.
L’11 aprile 2001 il processo si concluse con sette condanne, per alcuni dei boss più pericolosi della Sicilia: Totò Riina, Francesco Madonia, Leoluca Bagarella (esecutore materiale dell’assassinio), Antonino Geraci, Giuseppe Calò, Michele Greco e Giuseppe Farinella. La famiglia Francese ottenne finalmente giustizia; e non soltanto per le condanne, ma perché finalmente l’omicidio di Mario Francese venne riconosciuto come un “delitto di mafia”.
Giuseppe non riuscì ad aspettare il processo di appello: quel vuoto che non era riuscito a colmare lo costrinse a togliersi la vita, nella notte tra il 2 e il 3 settembre 2002 nella sua abitazione.
Il 3 settembre 2002 non era un giorno qualunque. Era il ventesimo anniversario della strage di via Carini in cui furono barbaramente trucidati il Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, Prefetto di Palermo, sua moglie Emanuela Setti Carraro e l’Agente di scorta Domenico Russo. Giuseppe scelse proprio quel giorno per troncare la sua giovane vita, segnata profondamente e irrimediabilmente dall’infame omicidio di suo padre Mario Francese, il giornalista di cronaca del Giornale di Sicilia ucciso in un agguato mafioso il 26 gennaio 1979.
Alcuni amici, dopo la sua morte, si pentirono di averlo trascurato: dicevano che Giuseppe fosse diventato troppo sospettoso e vedeva ovunque l’ombra della mafia; dietro ogni esercizio commerciale, dietro ogni pizzeria, ogni locale vedeva l’ombra di Cosa Nostra. Aveva chiaramente sviluppato un atteggiamento investigativo che lo portò a incupirsi, a intristirsi, che gli fece perdere quella gioia di vivere e la spensieratezza che, sino a qualche anno prima, lo aveva contraddistinto.
Impegnò gran parte del suo tempo perché fosse fatta giustizia per quell’omicidio, per tanti anni rimasto insoluto, e ci riuscì. Non sapremo mai cosa gli è passato per la mente. Possiamo solo immaginare quanta angoscia avesse nel cuore.
Giuseppe Francese, il Gigante fragile – come lo definì il fratello Giulio – che ha saputo sfidare le sue fragilità.