Cinema
Gaetano Libertino ci racconta una storia vera.
Ho letto e riletto la sceneggiatura di Gaetano Libertino e ho trovato molte analogie con la storia di un giornalista di Parma, Gioacchino Guareschi, meglio conosciuto come “Michelaccio”, si firmava così sullo storico quotidiano “La Gazzetta di Parma” e su altre testate locali, dove pubblicò una quantità incredibile di storie, ambientate tra gli anni venti e trenta. Il nome di Guareschi è legato alla nota serie di opere dedicate a quei due incredibili personaggi che furono Don Camillo e Peppone. Nella mia vita ho vissuto scene simili alla figura del prete alle prese con un sindaco comunista ed è straordinaria la trasposizione cinematografica del 1955 di Gino Cervi, per la regia di Carmine Gallone. Aveva il cipiglio del grande cronista Guareschi, capace di raccontare avvenimenti a volte veri a volte di fantasia che scatenavano nel lettore quell’ancestrale voglia di conoscenza e di ricerca della verità. Leggere la storia che ci propone Libertino, è come fare una viaggio che lo stesso Guareschi fece con la pubblicazione del libro Bianco e nero. Quel cappotto che non ti ho comprato, è un racconto struggente, capace di fare suonare le corde dell’anima quando i personaggi ruotano attorno alla disabilità di Concetta, nata con una malformazione alla gamba ma non per questo diversa. E sono proprio i suoi affetti più intimi a difenderla dagli sguardi e dai bisbiglii popolari, tipici dei paesi arretrati dell’entroterra siciliano. Un paesaggio che si tinge di giallo con la raccolta del grano a fare da cornice a storie intrise di valori di un tempo, dove il “pater familias” era il custode dell’albero genealogico, e quindi dei suoi antenati, ma dove le donne, le madri, guidavano i destini dei figli. Chi non ricorda nelle case di campagna l’odore del pane di casa e il suo sacrale rito di preparazione. Libertino lo racconta molto bene nel suo testo che assume i toni dello sconforto quando Concetta perde la sua verginità in una squallida stalla per mano di un cognato, Onofrio, che inevitabilmente avrebbe fatto una brutta fine. La nascita di questa bimba difettosa raccontata in tutto il suo scorrere degli anni fino alla stessa naturalità della morte, è come una ellissi, metafora della vita tanto cara a un regista del calibro di Pupi Avati. La natura raccontata nel testo che poi diventerà trasposizione filmica, ci fa immaginare e vedere le distese di campi dell’entroterra siciliano, alberi secchi e morenti ma che se si scava con la mano si assiste sotto terra a un germogliare di vita con formiche che si muovono freneticamente e germogli che stanno per uscire. Libertino ama la sua città, la nostra Enna, ama la sua gente la racconta, storpia i cognomi e chi legge il testo non può che associare i cognomi a personaggi illustri di questa piccola comunità a mille metri di altezza. Quel cappotto che non ti ho comprato è un desiderio inconscio che c’è in ognuno di noi, che si materializza nel racconto della vita di tutti i giorni che solo un osservatore attento come Gaetano può descrivere in maniera coinvolgente e appassionata nelle afose notti d’estate che assumono i toni di racconti. Curioso e stravagante, a volte un po’ bizzarro, Libertino, ama i detti ennesi, e li riporta fedelmente nelle battute dei suoi personaggi.
La sceneggiatura ruota attorno a Carmela una ragazza sui 20 anni carina, lineamenti marcati, forte sia nel fisico che nel carattere con la postura piegata a causa della gamba difettosa. La madre ripete spesso: “mia figlia è nata con la grazia del Signore”! Inebria la lettura degli scenari di un tempo come il rito del fidanzamento in casa. Il periodo di riferimento sono gli anni 40-50, nei paesi i primi amori nascevano in chiesa o in occasione delle poche sagre popolari o la festa del o della patrona in cui le ragazze si facevano più belle e si mettevano il vestito buono. Giovani come vespe pronti a ronzare attorno alle ragazze in una sorta di rituale del corteggiamento mutuato dalla natura e dagli uccelli. Era grande festa quando il giovane si accorgeva di essere corrisposto, da qui il desiderio di chiedere la sua mano al padre che non poteva non tenere conto dello stato sociale ed economico, e soprattutto le qualità, le virtù e l’ onestà del futuro sposo. Anche la scena del baciamano in segno di gratitudine e di rispetto da parte della protagonista attinge al pozzo dei ricordi. Guai a sfuggire a li “reguli di bona crianza”, regolavano i rapporti umani nell’era in cui non era scritto il galateo e ci si scambiava ancora i bigliettini amorosi. “Quel cappotto che non ti ho comprato” è un amarcord che ha il sapore antico che risveglia un’incoscia voglia di tornare indietro per rileggere i vissuti di un tempo e forse per renderli attuali, guardando al futuro.