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Cinema

I fratelli Vanzina: “Quando papà Steno vide piangere Totò”

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Carlo ed Enrico Vanzina hanno ripercorso nella loro Masterclass al Teatro Petruzzelli la carriera del padre Steno, di cui ricorrono i 100 anni dalla nascita e la loro carriera di regista e sceneggiatore, segnata dall’invenzione dei “cinepanettoni” ma anche dalla scoperta di molti attori come Diego Abatantuono e Christian De Sica.

Un viaggio vertiginoso nella storia del cinema italiano che dagli esordi da sceneggiatore di Steno (al secolo Stefano Vanzina) negli anni ’30 arriva fino ai giorni nostri quando i figli Carlo ed Enrico vantano ormai l’uno più di 60 regie e l’altro oltre 100 sceneggiature all’attivo. Si può riassumere così la Masterclass al Teatro Petruzzelli coordinata da David Grieco, a sua volta regista e sceneggiatore, che ha visto i fratelli Vanzina parlare tanto della carriera del padre quanto della loro, rievocando costantemente film e protagonisti della grande stagione della commedia all’italiana.

“La commedia all’italiana nasce da una forte coesione tra autori, registi, produttori e attori che oggi non c’è più” – ha dichiarato Carlo – “Nostro padre, che era essenzialmente un liberale, era amico e lavorava con persone che la pensavano diversamente da lui, all’inizio nei bar perché nessuno aveva una casa abbastanza dignitosa da poter ospitare gli altri e poi in una camera d’albergo che avevano affittato tutti insieme e dove sul letto si affastellavano copioni su copioni, con quelli di Totò che si confondevano con quelli di Antonioni”.

Il nome di Totò è ricorso spesso nel corso dell’incontro: a lui è legata la prima fase della carriera di Steno, in coppia con Mario Monicelli con il quale vi fu un sodalizio durato per 8 film tra i quali “Guardie e ladri”, per Enrico “Il film che ha inventato la commedia all’italiana con una sceneggiatura che portava la firma, oltre che di papà e di Monicelli, di Vitaliano Brancati, Ruggero Maccari e Ennio Flaiano!”

“Papà era amico sia di Totò l’attore che del Principe De Curtis – ancora Enrico – “perché Totò era davvero due persone. Dopo la separazione con Monicelli, si spartirono i suoi film, a papà toccarono quelli più comici. Verso la fine della sua carriera consegnarono a Totò un premio della sua città, Napoli e a festeggiarlo c’era solo nostro padre. Fu lì che papà lo vide piangere nei camerini del Teatro Mediterraneo. Non poteva sapere che dopo la sua morte sarebbe diventato immortale grazie alla riproposizione dei suoi film in televisione”.

Un altro grande attore più volte citato nel corso dell’incontro è Alberto Sordi con il quale Steno inventò il personaggio di Nando Moriconi, l’”americano a Roma”, che fece la sua prima apparizione in “Un giorno in pretura”, proiettato prima della Masterclass (“Ponti che lo produceva non voleva Sordi, diceva che non gli piaceva nudo”).

Carlo Vanzina fu aiuto regista di Alberto Sordi prima di iniziare la sua carriera in proprio. “Ricordo che proprio qui al Teatro Petruzzelli venimmo a girare una scena di ‘Polvere di stelle’. Il teatro era gremito di comparse e quando Sordi rifece i più famosi sketch di avanspettacolo ci fu un vero tripudio, non dovemmo dare alcuna istruzione.”Fu anche aiuto di Monicelli: “Era cattivissimo, mi trattava male, io tornavo spesso a casa piangendo. Però poi mi richiamava sempre”.

Enrico, invece, una volta si trovò a fare da interprete a Sordi durante una intervista che gli fece Andy Warhol a New York “Gli chiese come faceva a passare con tanta disinvoltura da un personaggio all’altro e lui rispose: ‘cambiando cappello!’.

Così come Steno lanciò la carriera di tanti attori (molti dei quali sono stati mostrati in una clip montata da Enrico e proiettata nel corso dell’incontro), anche i fratelli Vanzina vantano tante scoperte, da Diego Abatantuono a Christian De Sica. “Che il produttore non voleva per ‘Sapore di mare’ – ricorda Enrico “e non voleva nemmeno Virna Lisi che considerava troppo vecchia. Finì che il film segnò la carriera di Christian e che Virna Lisi vinse sia il David di Donatello che il Nastro d’Argento.”

“La nostra carriera si può dire che sia iniziata con quel film, credo che lì abbiamo trovato quello che si può dire lo ‘stile Vanzina’, fatto di commedie corali, con musica adeguata, con le quali si ride, si sorride e ci si intenerisce anche un po’.”

Da “Sapore di mare” si è passati a “Vacanze di Natale” e all’invenzione dei cinepanettoni con Christian De Sica e Massimo Boldi. Enrico: “L’ultimo lo abbiamo fatto nel ’99 eppure continuano ad attribuirli a noi”. E Carlo: “Neri Parenti, che ha raccolto il nostro testimone, mi ha raccontato che una volta in Egitto durante le riprese di ‘Vacanze nel Nilo’ una comitiva di italiani si è avvicinata e gli ha detto: ‘Signor Vanzina, ci firmerebbe un autografo’?

Una lunga parte della Masterclass è stata dedicata a “Febbre da cavallo”, la commedia di Steno che passò quasi inosservata all’uscita per poi diventare da lì a qualche anno un film di culto. Enrico: “La prima sceneggiatura era di Alfredo Giannetti, poi ci rimettemmo le mani io e papà. Lui mi disse che voleva farne un film tipo quelli degli anni ’50, in cui ci fosse molta attenzione ai personaggi minori, ai caratteristi. È una consuetudine che si è persa, ora che tanti comici scrivono, dirigono e interpretano i loro film, diventando così autoreferenziali”.

Carlo: “Nella mostra allestita a Roma alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna per i 100 anni dalla nascita di papà, c’è uno spazio riservato a ‘Febbre da cavallo’ in cui troneggia uno stralcio della recensione di un famoso critico secondo cui il film aveva il peggior difetto per una commedia: non faceva ridere. Pensate un po’.”

Ancora Enrico: “Quel film mi fece conoscere Luigi Proietti che poi richiamammo molti anni dopo per il seguito diretto da Carlo, ‘La mandrakata’ e con il quale poi abbiamo proseguito a lavorare per diversi film. È come se papà ci avesse passato il testimone”.

Sulla divisione dei compiti tra fratelli, Enrico: “A me piace scrivere. E Carlo è il regista con cui ho sempre lavorato meglio, anzi secondo me è il miglior regista che c’è, lo dico qui per la prima volta. È bravo a scrivere, a dirigere, ha gusto nella scelta degli attori, è spiritoso. È un fuoriclasse. Mi ricorda papà”

Stasera Carlo ed Enrico Vanzina torneranno sul palco del Teatro Petruzzelli per ricevere il Federico Fellini Platinum Award.

Cinema

Le Giornate del cinema per la scuola

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Al via le Giornate nazionali del cinema per la scuola: l’inaugurazione con il Sottosegretario Borgonzoni

La senatrice aprirà lunedì 4 novembre le Giornate nazionali del cinema per la scuola 2024, promosse dal Ministero dell’Istruzione e del Merito e dal Ministero della Cultura in collaborazione con Anec

Sarà la sottosegretaria alla Cultura, Lucia Borgonzoni, ad aprire lunedì 4 novembre le Giornate nazionali del cinema per la scuola 2024, promosse dal Ministero dell’Istruzione e del Merito e dal Ministero della Cultura in collaborazione con Anec (Associazione Nazionale Esercenti Cinematografici), nell’ambito del Piano nazionale cinema e immagini per la scuola. Per il secondo anno consecutivo, docenti e dirigenti scolastici di tutta Italia si riuniranno a Palermo, presso i Cantieri Culturali alla Zisa, trasformati fino al 6 novembre in una grande “Città del cinema per la scuola”. Il programma prenderà avvio alle 15:00 con la cerimonia inaugurale al Cinema De Seta, promossa dal Ministero dell’Istruzione e del Merito e dal Ministero della Cultura.

L’inaugurazione con il vice ministro

La cerimonia sarà aperta dai saluti del sottosegretario alla Cultura, Lucia Borgonzoni, e vedrà la partecipazione del direttore generale della Direzione Generale per la Comunicazione e le Relazioni Istituzionali del Mim, Giuseppe Pierro, e di Bruno Zambardino, referente per il Piano Nazionale Cinema per la Scuola presso la Direzione Generale Cinema e Audiovisivo del Mic, che illustreranno le novità del Piano Cips. Alle 16:30, avrà luogo la presentazione dei film in uscita destinati al pubblico scolastico, a cura di Circuito Cinema Scuola e delle case di produzione e distribuzione Universal Pictures e Warner Bros, che presenterà il suo ultimo film d’animazione: Buffalo Kids di Juan Jesús García Galocha e Pedro Solís García (Spagna 2024, 93′), uscito nelle sale il 31 ottobre.

Alle 20:30 si terrà l’evento di punta della prima giornata: la presentazione in anteprima nazionale del film Criature (Italia 2024) di Cécile Allegra, tratto dall’omonimo romanzo della stessa autrice e previsto nelle sale dal 5 dicembre. Al Cinema De Seta, lunedì sera, sarà presente la regista Cécile Allegra, accompagnata da un collegamento in diretta con l’attore protagonista Marco D’Amore, noto per il suo ruolo nella serie Gomorra.

Fonte: cinecittanews.it

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REAL al Festival dei Popoli

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‘REAL’, al Festival dei Popoli l’anteprima del film di Adele Tulli

Una produzione Pepito Produzioni e FilmAffair con Rai Cinema e Luce Cinecittà in collaborazione con Les Films d’Ici. In sala dal 14 novembre con Luce Cinecittà

Arriva nei cinema dopo l’acclamata prima mondiale all’ultimo Festival di Locarno e il Premio della Giuria al Festival del Film di Villa Medici dedicato al rapporto tra cinema e arti contemporanee, REAL, il nuovo film di Adele Tulli. Real sarà presentato in anteprima al 65. Festival dei Popoli, il più antico appuntamento del cinema documentario d’Europa, domenica 3 novembre alle 19.30 al Cinema La Compagnia di Firenze, alla presenza della regista.

Dopo il successo della sua opera prima Normal (presentato alla Berlinale, vincitore della Menzione Opera Prima ai Nastri d’Argento e acclamato in numerosi festival internazionali), Real sbarca sugli schermi il 14 novembre, distribuito da Luce Cinecittà. Il film è prodotto da Pepito Produzioni e FilmAffair con Rai Cinema e Luce Cinecittà, in collaborazione con Les Films d’Ici. La distribuzione internazionale è affidata a Intramovies.

Adele Tulli scrive e dirige un nuovo viaggio visionario, poetico e inatteso dentro un mondo in cui siamo quotidianamente immersi, talmente abituale da non farci più rendere conto di quanto sia in realtà sconosciuto ed estraniante: il mondo digitale. Una realtà che ha rivoluzionato le vite di tutti e che il documentario esplora con lenti tecnologiche, creative e relazionali. Con uno sguardo inedito e curioso, Real ci porta in un territorio ineffabile, alieno e al contempo familiare.

Scritto e diretto da Adele Tulli, REAL vede la fotografia di Clarissa Cappellani e Francesca Zonars, il montaggio di Ilaria Fraioli e Adele Tulli, le musiche originali di Andrea Koch e la produzione creativa di Laura Romano. È prodotto da Agostino Saccà per Pepito Produzioni, Valeria Adilardi, Luca Ricciardi, Laura Romano e Mauro Vicentini per FilmAffair, in collaborazione con Charlotte Uzu di Les Films d’Ici.

La sinossi di Real

Reale [dal lat. mediev. realis, derivato di res “cosa”] – 1. Che è, che esiste veramente, effettivamente e concretamente. La nostra concezione comune di “realtà” era fatta di oggetti tangibili, di relazioni corporee, di esperienze ed eventi in spazi fisici. Tuttavia, un processo inarrestabile di accelerazione digitale ha trasformato radicalmente il nostro pianeta, le nostre società e noi stessi: i dispositivi digitali non sono più semplici strumenti, ma porte d’accesso a una nuova realtà. I nostri smartphone e computer ci conducono in un universo aumentato in crescita esponenziale, che esperiamo quasi sempre senza contatto fisico. Un mondo digitale dove trascorriamo la maggior parte del nostro tempo, cercandovi felicità, soddisfazione, rapporti, conoscenza e nuove esperienze. Ma allora, cosa è oggi ‘reale’?

R E A L è un viaggio filmico, visionario e coinvolgente nel mondo disincarnato della rete, un multiverso digitale parallelo in cui ogni cosa esistente è trasformata dalla fisica degli atomi alla logica dei bit. È un documentario creativo che esplora la trasformazione dell’esperienza umana nell’era digitale, facendo luce sui molti aspetti, a tratti perturbanti, della vita iperconnessa: i protagonisti – umani, robotici, virtuali – affrontano relazioni digitali, lavori virtuali, cybersessualità, abitazioni e città futuristiche, automatizzate e sorvegliate. Raccontano una cultura dell’autorappresentazione, di nuove dipendenze e patologie, di alienazione e isolamento, ma anche di identità libere dai confini fisici del corpo.

R E A L adotta uno sguardo sperimentale, utilizzando poeticamente le stesse tecnologie che definiscono il mondo digitale: visori, webcam, smartphone, videocamere di sorveglianza e sguardi meccanici che ci accompagnano in un nuovo modo di vivere la realtà. Senza risposte o giudizi, ma con la curiosità di uno sguardo che esplora un nuovo pianeta, Real ci conduce al di là e al di qua di un confine incerto.

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Pupi Avati e il conformismo

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Pupi Avati, o “l’anticonformismo del conformismo”

La presentazione del volume ‘Pupi Avati fuori dal cinema italiano’ al Museo Etrusco di Roma, alla presenza dei fratelli Avati. Steve Della Casa intervista il regista e l’autore del libro, Massimiliano Perrotta

“Il mio libro inizia con una cena a casa di Laura Betti, dove Pupi Avati era appena arrivato da Bologna con due film che erano andati male. E proprio lì, dove c’erano Bellocchio, Bertolucci, Moravia, Pasolini… gli scappò detto ‘io sono democristiano’: la cosa più conformista, che però in quel consesso coincideva col massimo dell’eresia. Su questo paradosso, su questa contraddizione, lui ha costruito la sua carriera e io ho costruito il mio libro”.

Così Massimiliano Perrotta presenta al pubblico il suo Pupi Avati fuori dal cinema italiano in una gremita Sala della Fortuna del Museo Etrusco di Villa Giulia a Roma. Una biografia decisamente sui generis, appena uscita con Edizioni Sabinae, che in otto capitoli raccoglie altrettanti articoli già pubblicati dall’autore catanese sull’’Huffington Post’. Accanto a lui il regista, fresco della Laurea ad Honorem in Italianistica appena conferitagli all’Università Roma Tre, mentre in prima fila siede l’inseparabile fratello, Antonio Avati.

A moderare l’incontro è Steve della Casa, critico cinematografico e direttore artistico, storico conduttore radiofonico di ‘Hollywood Party’ nonché regista, autore e Conservatore della Cineteca Nazionale.

L’anticonformismo del conformismo è la chiave di lettura che il libro dà alla carriera di Pupi Avati”, rimarca Della Casa, dopo aver presentato il regista, accolto da un lungo applauso, come ‘il più grande affabulatore che ho conosciuto nella mia carriera’: “una carriera che ha parecchi punti che sorprendono, come dimostra il volume stesso. Ad esempio quando qualche anno fa ho scoperto che gran parte dell’ultimo film di Pasolini, Salò, è stato scritto da Pupi Avati, rispetto ai suoi lavori successivi mi sembrava una cosa eccentrica. Invece poi non lo è affatto. Questo libro è molto interessante e controcorrente, perché è una biografia non esaltatoria del soggetto e non ha un’esigenza di completezza: racconta un preciso punto, la posizione eccentrica di Pupi Avati all’interno della galassia del cinema italiano”.

“Il libro di Massimiliano (Perrotta, ndr) apre con la storia di quella cena, ma non è che io sono arrivato là e ho detto così, dal nulla, ‘sono democristiano’”, precisa ridendo Pupi Avati, che prende la parola confermandosi esattamente nel ruolo in cui è stato presentato e snocciolando anche in questa occasione decine di aneddoti più che divertenti sui suoi 85 anni di vita, di famiglia e di cinema, spesso mimando il racconto la voce con vere e proprie gag.

“Quello era il risultato di una serie di considerazioni di noi che arriviamo a Roma (io e mio fratello Antonio, ndr) con due ‘cadaveri’ di insuccessi, come allora si diceva”, continua il regista. “Anche dietro alla stessa scelta di questo piccolo nome, ‘Pupi’ Avati, c’era una cultura, un mondo, dei genitori, dei nonni, delle zie, la campagna vissuta nel primo dopoguerra… C’erano le favole contadine terrorizzanti che ci raccontavano prima di andare a letto nelle camere scricchiolantissime, come la favola del ‘prete donna’… E poi c’era la chiesa, l’educazione cattolica preconciliare, piena di inferno e di diavolo dappertutto. Ecco, avendo tenuto dentro di me con riconoscenza quell’immaginario che si è andato a formare laggiù, in quel tempo remoto, con una grande nostalgia… Perché allora non c’era niente, a parte i campi… E allora riempivi quel niente con l’immaginazione, col racconto orale, che era fondamentale. Magari alcuni dei miei parenti erano pressoché analfabeti, non avrebbero mai saputo scrivere… ma sapevano raccontare. E saper raccontare – come sapeva fare nostra madre, una narratrice fantastica, che da quando salivamo in macchina da via Saragozza a Bologna fino a Roma non si interrompeva un minuto – era una cosa preziosissima. Questa è l’Italia dalla quale vengo, che non aveva quasi nulla, ma aveva tantissimo, perché ti permetteva di immaginare, che oggi è una cosa quasi proibita”.

Tornando al libro, anche per chi non abbia letto in precedenza i suoi articoli online, lo stile del racconto di Perrotta appare esplicito fin dalle prime pagine e non lesina – ora qua ora là – personalissimi epiteti ai grandi maestri della settima arte, destinati a far discutere. Ma anche nei titoli scelti per dividere il volume: si va da Un democristiano nel salotto – dove si racconta la famosa cena di cui sopra – per poi passare a Il Truffaut dell’Italietta, La poesia democristiana, o Agli antipodi del fighettismo, all’interno del quale, ad esempio, l’autore scrive: “Glamour: ecco una parola che non si addice al cinema di Pupi Avati. Egli si colloca agli antipodi del fighettismo artistico e di quello sociale (…). Mentre il fighettismo idolatra i vincenti, Avati simpatizza per i candidi, per gli insicuri, per gli sfigati”.

“Pupi Avati è fuori dal cinema italiano per una ontologica estraneità agli schemi culturali che nell’ultimo mezzo secolo lo hanno dominato”, scrive ancora Perrotta nel primo capitolo: “non ha fede nella storia, non crede nel progresso, non lotta contro il potere, non gli interessano i temi sociali, non si batte per le nobili cause, non vuole denunciare nulla, non racconta la crisi dell’Occidente, non segue le mode, non ostenta citazioni, non è laico. Per la stessa ragione il cinema italiano ama poco Pupi Avati: lo tratta con condiscendenza, premia raramente i suoi film, fatica a riconoscergli lo status di autore con la a maiuscola. (…). Il cinema di Pupi Avati non va rivalutato o sdoganato: va letto con occhi vergini, con occhi postnovecenteschi, con gli occhi di domani”.

“Il cinema di Pupi è personalissimo, senza quella aggressività che altri autori cercano di imporre sulla materia narrata e sulla realtà con la loro cifra”, continua l’autore del libro in sala. “Anche nei riguardi del film horror, lui lo fa a tutti gli effetti, rispettandone i codici ma poi arricchendone il contesto con il suo sguardo. Anche in Salò, certo, c’è la sua firma, ma discreta: non c’è nulla che lui faccia, anche per la tv, che non rispetti quel che gli viene chiesto, e che però sia al tempo un film di Pupi Avati a tutti gli effetti, con tutte le sue cifre stilistiche, ma sempre con discrezione, con quel senso della misura che secondo me è quello che, se da un lato lo rende amabile, lo ha visto penalizzato da parte della critica. Ma il tempo secondo me dà ragione a lui”.

“L’argomento del film di genere, presente nel libro, è una preoccupazione che Pupi ha a livello di prospettiva”, precisa Steve Della Casa. “È molto attento anche a quello che avviene anche dal punto di vista commerciale nel cinema italiano, e alla sua capacità di trovare un pubblico. Praticare il cinema ‘di genere’ è stata una caratteristica del cinema italiano negli anni del suo massimo splendore. Diceva Giuliano Montaldo che se si potevano fare i film di Bertolucci e Pasolini era perché si facevano quelli di Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, che incassavano, pensate, quasi il 10% del totale nel cinema italiano, consentendo agli altri di sperimentare. E poi c’era un’osmosi tra cinema d’autore e di genere, che si confrontavano continuamente. Nell’horror che fa Pupi Avati, ad esempio, gli effetti speciali hanno un ruolo piccolissimo, il suo è un horror di atmosfera: la paura ti arriva da altre cose”.

A chiudere la pubblicazione, un’interessante ‘raccolta nella raccolta’ tratta da libri, riviste e/o quotidiani, intitolata Fior da Fiore, che a partire dal 1970 fino al 2024 riporta i punti di vista delle più note firme del grande schermo nei confronti del cinema di Pupi Avati: Miccichè, Farassino, Bignardi, Bertetto, Caprara (Valerio), Anselmi, Fofi, Morandini, Ferzetti (Fausto), Rondolino, Tornabuoni, Crespi, Sarno, Kezich, Nepoti, Brunetta, Mereghetti, Rondi, Mancuso, Salvagnini, Giusti, Zappoli e Siniscalchi.

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