Editoriali
Effetto «mismatch», i preoccupanti dati sull’occupazione
Il Sole 24 ore ha pubblicato in questi giorni una serie di dati relativi all’occupazione in Italia cercando di analizzare il continuo aumento dei giovani disoccupati. L’economista Alberto Magnani si interroga sul fallimento delle politiche del lavoro in un paese che cresce a rilento, con una produttività ferma al palo da anni, l’occupazione non può che risentirne: meno crescita significa meno posti di lavoro o comunque un tessuto economico atrofizzato rispetto alla media Ue. A partire dal vecchio ostacolo della «transizione scuola-lavoro», espressione burocratica per indicare la ricerca di un impiego al termine del proprio percorso di studi. Istruzione e mondo aziendale tendono a dialogare poco, dilatando i tempi di attesa fra la fine di scuole-università e inizio del lavoro. L’Italia è tra i pochi paesi Ue dove a un laureato occorre più di un anno per farsi assumere, ma i tempi restano estesi anche per chi esce da corsi – in teoria – formativi come gli istituti tecnici e professionali. Le imprese lamentano a cadenza periodica il «mismatch», ovvero la difficoltà di trovare profili adatti. Ma spesso il problema andrebbe rovesciato: le offerte delle imprese cadono a vuoto perché studenti e neolavoratori non possono essere in possesso di tutte le qualifiche richieste dalle aziende in un certo ciclo produttivo, ma devono essere formati in corso d’opera. Peccato che ad oggi, secondo dati Istat, solo il 60% delle imprese abbia erogato corsi di formazione interni. Dove non ci sono le aziende, dovrebbe esserci il pubblico. Cioè le cosiddette politiche attive, le misure che incentivano la ricerca di occupazione (si chiamano così in opposizione a quelle passive, come i sussidi). Anche qui, però, l’Italia si relega ai bassi fondi delle graduatorie europee. Il nostro paese spende meno di 200 milioni di euro in «supporto all’impiego», contro i 5 miliardi abbondanti investiti dalla Germania nel solo training e oltre 11 miliardi indirizzati ai servizi per l’impiego. Numeri che permettono a Berlino di tenere in piedi una delle sue infrastrutture tradizionali, il cosiddetto sistema duale: un modello di alternanza scuola-lavoro, avviato nel 1969, che permette ai giovani di intraprendere dai 16 anni in poi un percorso professionalizzante di formazione sia teorica che pratica, con una divisone equa fra ore sui banchi e tirocini in azienda. Se poi si parla del confronto fra dimensioni ed efficienza dei centri per l’impiego, il paragone diventa impietoso. In Italia si contano un totale di poco più di 550 centri per l’impiego, responsabili del ricollocamento di meno del 3% di chi cercava lavoro. In Germania i Bundesagentur für Arbeit, uffici dedicati ai soli disoccupati, sono quasi 100mila. Ogni commento risulta puramente superfluo!