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Cinema

Due telefonate, il racconto di Amelio su de Seta

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Se penso a Vittorio De Seta mi vengono subito in mente due telefonate che ci siamo fatti a distanza di quarant’anni. La prima gliel’ho fatta io nel mese di aprile del 1965, proponendomi come assistente volontario. La seconda, la sua, è del 2001, quando stava preparando Lettere dal Sahara. Vittorio si era già da tempo trasferito a Sellia Marina, io venivo da San Pietro Magisano, due paesini in provincia di Catanzaro che distano l’uno dall’altro non più di cinque, sei chilometri. Un giorno mi chiama per dirmi che vuole incontrarmi: «Sono a Roma, avrei bisogno di parlarti, se hai un po’ di tempo.» Ci vediamo in un bar di Prati, il quartiere dove abito. Non lo vedevo da una decina d’anni, dal tempo del suo documentario In Calabria.

Allora ci eravamo incontrati a Cosenza – dopo 32 anni – per una proiezione con dibattito, e l’emozione era stata fortissima. Non era più il De Seta che ricordavo. Aveva l’aria di un ragazzo che comincia a fare il cinema, non di un regista consacrato che può permettersi di dare lezioni. Vittorio, le lezioni le cercava. Uscendo dal cinema mi chiese: «Adesso che non ci sente nessuno, mi puoi dire se davvero ho sbagliato? Mi criticano tutti…» E io: «Invece ti somiglia, è sincero, è vicino alle cose più belle che hai fatto…» «No, non è vero. C’è un errore grave, il commento fuori campo… Me l’hanno imposto… Ma ho spiegato troppo, ho detto bruscamente come la penso sulla Calabria di oggi. E qua adesso mi vedono come un estraneo, un usurpatore.»

Alla fine è stato lui a convincermi che forse aveva ragione. Non era necessario che lui spiegasse, perché le immagini parlavano da sole, secondo quello che era stato il suo insegnamento dagli Anni Cinquanta in poi, all’epoca dei suoi grandi cortometraggi. Ma questa volta Vittorio sentiva di aver ceduto per la prima volta in vita sua alle richieste di una committenza, e di aver chinato la testa di fronte al falso problema dell’immagine nuda, che al pubblico della televisione (dicono) non arriva, e quindi ha bisogno di tanta musica e di tante parole sopra…

Siamo al 2001 e arriva le sua telefonata. Quando lo vedo, Vittorio ha quell’espressione tra l’innocente e il guardingo che gli era solita davanti a un impegno nuovo. E mi dice subito una cosa toccante: «Ho dimenticato com’è fare il cinema, non conosco più nessuno, non sono in grado di scegliere una troupe, non so da dove cominciare se devo pensare a un operatore, a un fonico, a un produttore che non mi imbrogli…» Vittorio mi parlava con un tono tipico suo, di bambino che si lamenta di qualcosa, che ha paura dei grandi e si difende mostrandosi disarmato… Ho rivisto subito il Vittorio De Seta che tante volte mi ero trovato di fronte durante la lavorazione di Un uomo a metà, quando era un regista di grande reputazione, e anche di buon affidamento commerciale, dato che Banditi a Orgosolo era andato bene e ora c’era l’accordo con Dino De Laurentiis… Eppure, anche all’epoca, vedevo Vittorio in una situazione personale che non era quella dell’insicurezza ma del disagio… Gli leggevo in faccia il timore di essere inadeguato, il dolore di non saper spiegare agli altri quello che sentiva di dover fare, di quando sai che anche l’ingegno ti può tradire se non lo tieni a bada. Come in Due settimane in un’altra città di Minnelli, dove un regista che perde il lavoro dice: «Non riesco a ricordarmi quand’è che il talento mi ha lasciato…» Vittorio aveva questa sensazione durante le riprese del film della sua maturità – era allora sui quarant’anni – temeva che la materia del film gli sfuggisse di mano e tendesse ad abbandonarlo, e ne soffriva come si soffre per la perdita di ciò che ami.

Questo secondo incontro dopo tanto tempo mi risultò difficile, perché non potevo dargli che risposte confuse. Sapevo solo che il cinema italiano non era più quello di una volta, e del resto, nemmeno negli Anni Sessanta somigliava a De Seta e al suo modo di concepire la regia.

Mi ricordo che durante Un uomo a metà il capo macchinista mi diceva: questo non è il cinema normale… Perché un macchinista, un elettricista, un truccatore ti dicono questo? Perché sentono che non c’è il “mestiere”, perché per il lavoratore del cinema quello che conta è soprattutto l’attitudine a governare il lavoro possibilmente senza scosse e ritardi; non conta l’estro, la creatività, la capacità di invenzione… A De Seta, che aveva tutto questo, mancava il benedetto mestiere. Ed era questa la ragione per cui mi aveva voluto incontrare. Perché nel corso degli anni, dopo aver visto qualche mio film, mi aveva scritto lettere molto brevi e molto affettuose, girando attorno a un pensiero: «Come riesci tu a fare un cinema così, da dove prendi l’esperienza, come fai a guidare tutte quelle comparse ne Lamerica, e a raccontare gli anni Trenta, tu che non li hai vissuti, in Porte aperte… Io non sarei capace. E Il ladro di bambini? Come hai fatto a dirigere Valentina e Giuseppe?…» Questo rende l’idea del candore, del lato infantile di Vittorio, che ha un rovescio, come in tutti i bambini: la grande innocenza e la grande perfidia. Vittorio era un uomo eccezionalmente buono ed eccezionalmente cattivo, se voleva, non solo in senso minuto, ma in senso forte, importante, con se stesso in primo luogo. Aveva spesso in sé il suo peggiore nemico. Ho cercato per tanto tempo di spiegarmi la sua mancanza di gioia in un lavoro bello e privilegiato come il nostro. Non sono riuscito a darmi una risposta, se non nel senso che la sua personalità era aristocratica in tutti i sensi: in senso buono, perché l’aristocrazia in un artista ne fa una personalità non comune, ma anche lo isola quando ha bisogno degli altri.

Vittorio difficilmente aveva un dialogo con i collaboratori, difficilmente dirigeva gli attori come complici, o come colori della sua tela. Mostrava piuttosto una sorta di fastidio perché tentavano di prendere il posto del colore perfetto, della figura perfetta che lui aveva in mente. In questo senso i rapporti con gli altri erano complicati: noi lo adoravamo e lui ci scansava il più possibile. Lo faceva senza rendersi conto di ferirci. Con me lo ha fatto alla fine del film, quando si è accorto che gli ero quasi diventato indispensabile, anche perché ero uno dei pochi sopravvissuti a una decimazione continua, perché Vittorio diffidava di tutti. E verso la fine della sua attività, nel documentario In Calabria e in Lettere dal Sahara, ha diffidato anche di se stesso. Ha chiuso un circolo inquietante ma tutto scritto nel suo carattere, non solo come cineasta e artista. Vittorio è un uomo che nella vita ha dovuto lottare contro la propria origine di “nobile” siciliano, in un periodo in cui esserlo significava un distacco netto dai comuni mortali. Non è un caso che poi sia messo dalla parte dei pescatori, dei pastori, dei contadini… La cosa toccante in un film come In Calabria è che lui capisce – e perciò viene preso di mira dai conformisti – che la Calabria ha perso il meglio di sé da quando è diventata da terra di braccianti a terra di affarismo truccato da industria. E Vittorio non si fa mai prendere dall’ambiguità di uno sguardo nostalgico sul passato, perché quella che sembra nostalgia è l’altra faccia del disprezzo che ormai prova nei confronti di quello che il Sud ha subìto, con la coscienza di non poter più fare niente nemmeno come poeta, perché la poesia non incide sulla politica. In Calabria è uno dei suoi film più dolorosi, perché la terra di Calabria era diventata il suo rifugio dopo l’abbandono di Roma: ci era andato per guarire da quello che il cinema gli aveva negato.

In Un uomo a metà il protagonista solo alla fine riesce ad accettare di non essere come gli altri, di non essere fatto a immagine e somiglianza degli altri, ma solo di se stesso. E questo lo rende non disponibile, sfuggente e solitario. Così, prima di farsi isolare, Vittorio ha voluto isolarsi; prima di farsi sbattere la porta in faccia, le porte le ha sbattute lui. È l’opposto di come ci si deve comportare in questo lavoro: il cinema ha tante di quelle trappole, che devi capirle prima ancora di averle davanti. E se uno ti chiude una porta, devi sapere subito dov’è la finestra. Vittorio è stato vittima orgogliosa del modo in cui si fa il cinema “normale”, non solo in Italia, ma dovunque. Ha fatto il regista come un bambino che fa un gioco serio, senza preoccuparsi delle regole. Aveva le possibilità economiche per poterlo fare, e ha acquisito anche il vizio di giocare un po’ troppo, oltre il tempo concesso a un bambino. Ecco, il suo bello e il suo limite è che nei confronti del cinema non ha mai sentito dei doveri convenzionali. Vittorio meritava molto più di quanto ha avuto se partiamo dalla considerazione del suo talento, ma è lui che ha voluto così. Lo si vede in modo eloquente ne Linvitata, dove gli stessi sbagli diventano qualità d’autore. Ma il suo film assoluto, perfetto, resta Diario di un maestro. Ha la forza del documentario nella finzione (e viceversa), mostra un De Seta libero da ogni etichetta. In tutti i suoi mirabili cortometraggi fatti tra le Eolie e il Gennargentu c’è sempre in agguato – ma non arriva mai a essere un difetto – la voglia di cercare comunque l’immagine bella. Questo nel Diario di un maestro non c’è più. C’è la volontà di essere un bambino che deve imparare, e nello stesso tempo di essere un maestro che deve insegnare a un bambino come si impara. È lo stesso rapporto che lui ha instaurato con me in quell’ultimo incontro. Vittorio è stato l’allievo e contemporaneamente il maestro di se stesso. Come Bruno Cirino, che acquista il sapere dai mocciosi della sua scuola. È una cosa mirabile. E la sua più grande lezione.

Gianni Amelio
(Per il Quaderno del Cinemareale, versione cartacea)

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Le Giornate del cinema per la scuola

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Al via le Giornate nazionali del cinema per la scuola: l’inaugurazione con il Sottosegretario Borgonzoni

La senatrice aprirà lunedì 4 novembre le Giornate nazionali del cinema per la scuola 2024, promosse dal Ministero dell’Istruzione e del Merito e dal Ministero della Cultura in collaborazione con Anec

Sarà la sottosegretaria alla Cultura, Lucia Borgonzoni, ad aprire lunedì 4 novembre le Giornate nazionali del cinema per la scuola 2024, promosse dal Ministero dell’Istruzione e del Merito e dal Ministero della Cultura in collaborazione con Anec (Associazione Nazionale Esercenti Cinematografici), nell’ambito del Piano nazionale cinema e immagini per la scuola. Per il secondo anno consecutivo, docenti e dirigenti scolastici di tutta Italia si riuniranno a Palermo, presso i Cantieri Culturali alla Zisa, trasformati fino al 6 novembre in una grande “Città del cinema per la scuola”. Il programma prenderà avvio alle 15:00 con la cerimonia inaugurale al Cinema De Seta, promossa dal Ministero dell’Istruzione e del Merito e dal Ministero della Cultura.

L’inaugurazione con il vice ministro

La cerimonia sarà aperta dai saluti del sottosegretario alla Cultura, Lucia Borgonzoni, e vedrà la partecipazione del direttore generale della Direzione Generale per la Comunicazione e le Relazioni Istituzionali del Mim, Giuseppe Pierro, e di Bruno Zambardino, referente per il Piano Nazionale Cinema per la Scuola presso la Direzione Generale Cinema e Audiovisivo del Mic, che illustreranno le novità del Piano Cips. Alle 16:30, avrà luogo la presentazione dei film in uscita destinati al pubblico scolastico, a cura di Circuito Cinema Scuola e delle case di produzione e distribuzione Universal Pictures e Warner Bros, che presenterà il suo ultimo film d’animazione: Buffalo Kids di Juan Jesús García Galocha e Pedro Solís García (Spagna 2024, 93′), uscito nelle sale il 31 ottobre.

Alle 20:30 si terrà l’evento di punta della prima giornata: la presentazione in anteprima nazionale del film Criature (Italia 2024) di Cécile Allegra, tratto dall’omonimo romanzo della stessa autrice e previsto nelle sale dal 5 dicembre. Al Cinema De Seta, lunedì sera, sarà presente la regista Cécile Allegra, accompagnata da un collegamento in diretta con l’attore protagonista Marco D’Amore, noto per il suo ruolo nella serie Gomorra.

Fonte: cinecittanews.it

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REAL al Festival dei Popoli

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‘REAL’, al Festival dei Popoli l’anteprima del film di Adele Tulli

Una produzione Pepito Produzioni e FilmAffair con Rai Cinema e Luce Cinecittà in collaborazione con Les Films d’Ici. In sala dal 14 novembre con Luce Cinecittà

Arriva nei cinema dopo l’acclamata prima mondiale all’ultimo Festival di Locarno e il Premio della Giuria al Festival del Film di Villa Medici dedicato al rapporto tra cinema e arti contemporanee, REAL, il nuovo film di Adele Tulli. Real sarà presentato in anteprima al 65. Festival dei Popoli, il più antico appuntamento del cinema documentario d’Europa, domenica 3 novembre alle 19.30 al Cinema La Compagnia di Firenze, alla presenza della regista.

Dopo il successo della sua opera prima Normal (presentato alla Berlinale, vincitore della Menzione Opera Prima ai Nastri d’Argento e acclamato in numerosi festival internazionali), Real sbarca sugli schermi il 14 novembre, distribuito da Luce Cinecittà. Il film è prodotto da Pepito Produzioni e FilmAffair con Rai Cinema e Luce Cinecittà, in collaborazione con Les Films d’Ici. La distribuzione internazionale è affidata a Intramovies.

Adele Tulli scrive e dirige un nuovo viaggio visionario, poetico e inatteso dentro un mondo in cui siamo quotidianamente immersi, talmente abituale da non farci più rendere conto di quanto sia in realtà sconosciuto ed estraniante: il mondo digitale. Una realtà che ha rivoluzionato le vite di tutti e che il documentario esplora con lenti tecnologiche, creative e relazionali. Con uno sguardo inedito e curioso, Real ci porta in un territorio ineffabile, alieno e al contempo familiare.

Scritto e diretto da Adele Tulli, REAL vede la fotografia di Clarissa Cappellani e Francesca Zonars, il montaggio di Ilaria Fraioli e Adele Tulli, le musiche originali di Andrea Koch e la produzione creativa di Laura Romano. È prodotto da Agostino Saccà per Pepito Produzioni, Valeria Adilardi, Luca Ricciardi, Laura Romano e Mauro Vicentini per FilmAffair, in collaborazione con Charlotte Uzu di Les Films d’Ici.

La sinossi di Real

Reale [dal lat. mediev. realis, derivato di res “cosa”] – 1. Che è, che esiste veramente, effettivamente e concretamente. La nostra concezione comune di “realtà” era fatta di oggetti tangibili, di relazioni corporee, di esperienze ed eventi in spazi fisici. Tuttavia, un processo inarrestabile di accelerazione digitale ha trasformato radicalmente il nostro pianeta, le nostre società e noi stessi: i dispositivi digitali non sono più semplici strumenti, ma porte d’accesso a una nuova realtà. I nostri smartphone e computer ci conducono in un universo aumentato in crescita esponenziale, che esperiamo quasi sempre senza contatto fisico. Un mondo digitale dove trascorriamo la maggior parte del nostro tempo, cercandovi felicità, soddisfazione, rapporti, conoscenza e nuove esperienze. Ma allora, cosa è oggi ‘reale’?

R E A L è un viaggio filmico, visionario e coinvolgente nel mondo disincarnato della rete, un multiverso digitale parallelo in cui ogni cosa esistente è trasformata dalla fisica degli atomi alla logica dei bit. È un documentario creativo che esplora la trasformazione dell’esperienza umana nell’era digitale, facendo luce sui molti aspetti, a tratti perturbanti, della vita iperconnessa: i protagonisti – umani, robotici, virtuali – affrontano relazioni digitali, lavori virtuali, cybersessualità, abitazioni e città futuristiche, automatizzate e sorvegliate. Raccontano una cultura dell’autorappresentazione, di nuove dipendenze e patologie, di alienazione e isolamento, ma anche di identità libere dai confini fisici del corpo.

R E A L adotta uno sguardo sperimentale, utilizzando poeticamente le stesse tecnologie che definiscono il mondo digitale: visori, webcam, smartphone, videocamere di sorveglianza e sguardi meccanici che ci accompagnano in un nuovo modo di vivere la realtà. Senza risposte o giudizi, ma con la curiosità di uno sguardo che esplora un nuovo pianeta, Real ci conduce al di là e al di qua di un confine incerto.

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Pupi Avati e il conformismo

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Pupi Avati, o “l’anticonformismo del conformismo”

La presentazione del volume ‘Pupi Avati fuori dal cinema italiano’ al Museo Etrusco di Roma, alla presenza dei fratelli Avati. Steve Della Casa intervista il regista e l’autore del libro, Massimiliano Perrotta

“Il mio libro inizia con una cena a casa di Laura Betti, dove Pupi Avati era appena arrivato da Bologna con due film che erano andati male. E proprio lì, dove c’erano Bellocchio, Bertolucci, Moravia, Pasolini… gli scappò detto ‘io sono democristiano’: la cosa più conformista, che però in quel consesso coincideva col massimo dell’eresia. Su questo paradosso, su questa contraddizione, lui ha costruito la sua carriera e io ho costruito il mio libro”.

Così Massimiliano Perrotta presenta al pubblico il suo Pupi Avati fuori dal cinema italiano in una gremita Sala della Fortuna del Museo Etrusco di Villa Giulia a Roma. Una biografia decisamente sui generis, appena uscita con Edizioni Sabinae, che in otto capitoli raccoglie altrettanti articoli già pubblicati dall’autore catanese sull’’Huffington Post’. Accanto a lui il regista, fresco della Laurea ad Honorem in Italianistica appena conferitagli all’Università Roma Tre, mentre in prima fila siede l’inseparabile fratello, Antonio Avati.

A moderare l’incontro è Steve della Casa, critico cinematografico e direttore artistico, storico conduttore radiofonico di ‘Hollywood Party’ nonché regista, autore e Conservatore della Cineteca Nazionale.

L’anticonformismo del conformismo è la chiave di lettura che il libro dà alla carriera di Pupi Avati”, rimarca Della Casa, dopo aver presentato il regista, accolto da un lungo applauso, come ‘il più grande affabulatore che ho conosciuto nella mia carriera’: “una carriera che ha parecchi punti che sorprendono, come dimostra il volume stesso. Ad esempio quando qualche anno fa ho scoperto che gran parte dell’ultimo film di Pasolini, Salò, è stato scritto da Pupi Avati, rispetto ai suoi lavori successivi mi sembrava una cosa eccentrica. Invece poi non lo è affatto. Questo libro è molto interessante e controcorrente, perché è una biografia non esaltatoria del soggetto e non ha un’esigenza di completezza: racconta un preciso punto, la posizione eccentrica di Pupi Avati all’interno della galassia del cinema italiano”.

“Il libro di Massimiliano (Perrotta, ndr) apre con la storia di quella cena, ma non è che io sono arrivato là e ho detto così, dal nulla, ‘sono democristiano’”, precisa ridendo Pupi Avati, che prende la parola confermandosi esattamente nel ruolo in cui è stato presentato e snocciolando anche in questa occasione decine di aneddoti più che divertenti sui suoi 85 anni di vita, di famiglia e di cinema, spesso mimando il racconto la voce con vere e proprie gag.

“Quello era il risultato di una serie di considerazioni di noi che arriviamo a Roma (io e mio fratello Antonio, ndr) con due ‘cadaveri’ di insuccessi, come allora si diceva”, continua il regista. “Anche dietro alla stessa scelta di questo piccolo nome, ‘Pupi’ Avati, c’era una cultura, un mondo, dei genitori, dei nonni, delle zie, la campagna vissuta nel primo dopoguerra… C’erano le favole contadine terrorizzanti che ci raccontavano prima di andare a letto nelle camere scricchiolantissime, come la favola del ‘prete donna’… E poi c’era la chiesa, l’educazione cattolica preconciliare, piena di inferno e di diavolo dappertutto. Ecco, avendo tenuto dentro di me con riconoscenza quell’immaginario che si è andato a formare laggiù, in quel tempo remoto, con una grande nostalgia… Perché allora non c’era niente, a parte i campi… E allora riempivi quel niente con l’immaginazione, col racconto orale, che era fondamentale. Magari alcuni dei miei parenti erano pressoché analfabeti, non avrebbero mai saputo scrivere… ma sapevano raccontare. E saper raccontare – come sapeva fare nostra madre, una narratrice fantastica, che da quando salivamo in macchina da via Saragozza a Bologna fino a Roma non si interrompeva un minuto – era una cosa preziosissima. Questa è l’Italia dalla quale vengo, che non aveva quasi nulla, ma aveva tantissimo, perché ti permetteva di immaginare, che oggi è una cosa quasi proibita”.

Tornando al libro, anche per chi non abbia letto in precedenza i suoi articoli online, lo stile del racconto di Perrotta appare esplicito fin dalle prime pagine e non lesina – ora qua ora là – personalissimi epiteti ai grandi maestri della settima arte, destinati a far discutere. Ma anche nei titoli scelti per dividere il volume: si va da Un democristiano nel salotto – dove si racconta la famosa cena di cui sopra – per poi passare a Il Truffaut dell’Italietta, La poesia democristiana, o Agli antipodi del fighettismo, all’interno del quale, ad esempio, l’autore scrive: “Glamour: ecco una parola che non si addice al cinema di Pupi Avati. Egli si colloca agli antipodi del fighettismo artistico e di quello sociale (…). Mentre il fighettismo idolatra i vincenti, Avati simpatizza per i candidi, per gli insicuri, per gli sfigati”.

“Pupi Avati è fuori dal cinema italiano per una ontologica estraneità agli schemi culturali che nell’ultimo mezzo secolo lo hanno dominato”, scrive ancora Perrotta nel primo capitolo: “non ha fede nella storia, non crede nel progresso, non lotta contro il potere, non gli interessano i temi sociali, non si batte per le nobili cause, non vuole denunciare nulla, non racconta la crisi dell’Occidente, non segue le mode, non ostenta citazioni, non è laico. Per la stessa ragione il cinema italiano ama poco Pupi Avati: lo tratta con condiscendenza, premia raramente i suoi film, fatica a riconoscergli lo status di autore con la a maiuscola. (…). Il cinema di Pupi Avati non va rivalutato o sdoganato: va letto con occhi vergini, con occhi postnovecenteschi, con gli occhi di domani”.

“Il cinema di Pupi è personalissimo, senza quella aggressività che altri autori cercano di imporre sulla materia narrata e sulla realtà con la loro cifra”, continua l’autore del libro in sala. “Anche nei riguardi del film horror, lui lo fa a tutti gli effetti, rispettandone i codici ma poi arricchendone il contesto con il suo sguardo. Anche in Salò, certo, c’è la sua firma, ma discreta: non c’è nulla che lui faccia, anche per la tv, che non rispetti quel che gli viene chiesto, e che però sia al tempo un film di Pupi Avati a tutti gli effetti, con tutte le sue cifre stilistiche, ma sempre con discrezione, con quel senso della misura che secondo me è quello che, se da un lato lo rende amabile, lo ha visto penalizzato da parte della critica. Ma il tempo secondo me dà ragione a lui”.

“L’argomento del film di genere, presente nel libro, è una preoccupazione che Pupi ha a livello di prospettiva”, precisa Steve Della Casa. “È molto attento anche a quello che avviene anche dal punto di vista commerciale nel cinema italiano, e alla sua capacità di trovare un pubblico. Praticare il cinema ‘di genere’ è stata una caratteristica del cinema italiano negli anni del suo massimo splendore. Diceva Giuliano Montaldo che se si potevano fare i film di Bertolucci e Pasolini era perché si facevano quelli di Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, che incassavano, pensate, quasi il 10% del totale nel cinema italiano, consentendo agli altri di sperimentare. E poi c’era un’osmosi tra cinema d’autore e di genere, che si confrontavano continuamente. Nell’horror che fa Pupi Avati, ad esempio, gli effetti speciali hanno un ruolo piccolissimo, il suo è un horror di atmosfera: la paura ti arriva da altre cose”.

A chiudere la pubblicazione, un’interessante ‘raccolta nella raccolta’ tratta da libri, riviste e/o quotidiani, intitolata Fior da Fiore, che a partire dal 1970 fino al 2024 riporta i punti di vista delle più note firme del grande schermo nei confronti del cinema di Pupi Avati: Miccichè, Farassino, Bignardi, Bertetto, Caprara (Valerio), Anselmi, Fofi, Morandini, Ferzetti (Fausto), Rondolino, Tornabuoni, Crespi, Sarno, Kezich, Nepoti, Brunetta, Mereghetti, Rondi, Mancuso, Salvagnini, Giusti, Zappoli e Siniscalchi.

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