Hand in cap (Dott.M.Milazzo)

Dai bisogni di Abraham Maslow alla povertà di Amartya Sen

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AMARTYA SEN PREMIO NOBEL PER L’ECONOMIA 1998

Chi ha autorevolezza e titolo per dare la definizione di povertà non sono i sociologi, i politici e nemmeno i gli economisti, ma solo i poveri. Per questo motivo quella che più mi convince appartiene ad Amartya Sen, nato in India, nel 1933 e Nobel per l’Economia nel 1998, non solo perché proveniente da un’esperienza diretta di grave indigenza ma anche per essersi sporcato le mani per contribuire a far nascere istituzioni e progetti per alleviare le povertà. Suo è il contributo, ad esempio, alla definizione dell’Indice di Sviluppo Umano, adottato nel 1993 dall’ONU, per valutare la reale qualità della vita dei paesi membri attraverso parametri diversi rispetto a quello fino ad allora considerato come l’unico valido, il PIL.

Per comprendere meglio il punto di vista dello scienziato indiano, è utile riferirci alla teoria di Abraham Maslow, psicologo statunitense, che ha definito i bisogni secondo un preciso schema e li ha collocati in una piramide alla cui base vi sono la soddisfazione delle necessità fisiologiche (fame, sete, freddo) e al vertice il “lusso” dei bisogni dell’autorealizzazione. Fra base e vertice la classificazione di Maslow contempla i bisogni legati alla sicurezza e alla protezione, poi a quelli di appartenenza e di accettazione e infine il riconoscimento e il rispetto.

Per il principio della gerarchia dei bisogni quelli essenziali sono quelli che soddisfano le necessità del corpo, mentre sono considerati secondari e meno importanti via via tutti gli altri.

Ma mi domando: è davvero meno importante per un anziano e morente l’attesa visita del figlio rispetto al pasto che ha appena consumato?

O quale valore può rivestire per due genitori in condizioni di indigenza portare a passeggio i propri figli ben vestiti o fare loro un regalo che non li faccia sentire diversi rispetto ai loro compagni di classe?

Maslow

Il prof. Luigino Bruni, in un suo editoriale su Avvenire, riassume così il pensiero dell’economista indiano: “La teoria della povertà di Amartya Sen si basa su un assioma fondamentale, una sorta di pietra angolare del suo edificio scientifico: la povertà è l’impossibilità che ha una persona di poter svolgere la vita che amerebbe vivere. La povertà è dunque una carestia di libertà effettiva, perché la mancanza di quelle che lui chiama capabilities (capacità di fare e di essere) diventa un ostacolo spesso insuperabile per fare la vita che vorremmo fare. E una delle capacità fondamentali consiste, per Sen, nel poter uscire in pubblico senza vergognarsi (di sé e dei giocattoli dei propri bambini). Una delle idee economico-sociali più rivoluzionarie e umanistiche dell’ultimo secolo”.

Per questo l’economista indiano è stato definito anche come il filosofo che crede nell’economia per i deboli, “che non si può misurare solo attraverso la crescita del PIL ma che deve partire dallo sviluppo delle libertà dell’individuo“. Secondo Sen, bisogna distinguere la crescita economica dal vero sviluppo del mondo. Esso è tale se riesce ad aumentare il grado di libertà di ogni singolo essere umano. E se egli sarà capace di fare quello che più desidera, solo allora potrà non essere più considerato povero.

Se una persona è libera di spendere la sua vita come desidera avrà la possibilità di realizzare i suoi sogni, di alimentare i suoi sentimenti, di realizzare progetti, di coltivare valori e relazioni. Avrà la serenità per leggere gli eventi e di esprimere opinioni. Nutrirsi e proteggersi dal freddo è importantissimo, vitale. Come altrettanto vitale è mantenere o ritrovare la propria dignità di persona libera. Chi ne è privo è il vero esperto sulla povertà.

Marco Milazzo

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