Cinema
Ariaferma, il bellissimo film di Leonardo Di Costanzo
Toni Servillo e Silvio Orlando fanno a gara di bravura come protagonisti di uno dei film più belli visti al Festival di Venezia 2021, dove avrebbe meritato di essere presentato in Concorso. Diretto da Leonardo Di Costanzo.
“L’ordine di trasferimento può arrivare in qualsiasi momento, anche domani”, ripete Gaetano, l’ispettore di Polizia Penitenziaria che viene lasciato con un pugno di colleghi e una dozzina di agenti a gestire dodici detenuti, che poi diventano tredici, in un carcere sperduto da qualche parte in Sardegna. Un carcere vecchio, antico, malridotto. Che sta chiudendo. I carcerati: tutti trasferiti. Tranne quei dodici. Che devono aspettare, assieme alle guardie.
Gaetano ripete quella frase, ma è il primo a non crederci: perché Ariaferma, in qualche modo, è un Deserto dei Tartari delle prigioni. È il racconto di una sospensione, di una situazione anomala e carica di tensione, che comprime e sintetizza le dinamiche carcerarie (e forse non solo), portando all’evidenza tutta la loro assurdità.
“È dura stare in carcere, eh”, dice a un certo punto Don Carmine Lagioia, rivolto a Gaetano. Non è una provocazione. Forse un po’ sì, ma Lagioia è un boss camorrista a fine pena, è intelligente, e non ha intenzione di sobillare malumori o rivolte, in quella situazione così tesa e anomala in cui sono tutti. La sua è la frase simbolo – eccezionalmente esplicita, in un film così composto, parco di parole, refrattario a ogni retorica – della situazione raccontata da Ariaferma.
Perché certo, alcuni stanno dietro le sbarre, e altri no, ma in fondo il carcere è carcere per tutti.
“Io e te non abbiamo nulla in comune,” si lascia scappare Gaetano a un certo punto, sotto tensione. Ma lo sa benissimo che non è vero. Lo sa benissimo Di Costanzo, anche sceneggiatore con Bruno Oliviero e Valia Santella, che ha costruito il film quasi a confutare questa tesi bislacca.
Quella stessa umanità che, in Ariaferma, sta dentro ogni singolo personaggio, perfino i più marginali, i più spigolosi, i più moralmente complicati. Perfino in coloro che vengono disprezzati dagli altri detenuti, i paria dei paria.
Volti e interpreti perfetti (ci sono anche Fabrizio Ferracane, Salvatore Striano, Leonardo Capuano e molti altri ancora); sceneggiatura precisa; un raro equilibrio narrativo essenziale ma carico di senso ed emozione; un uso della macchina da presa che, senza inutili virtuosismi, è capace di raccontare il carcere – quel carcere, ma forse anche l’idea stessa del carcere – in maniera ruvidamente realistica rendendolo al tempo stesso un altrove astratto e indefinito, vagamente da incubo.
Chiusi in quella bolla spazio-temporale, in uno strano e forzato panopticon, i protagonisti di Ariaferma rimangono separati da sbarre spesso invisibili, ma al tempo stesso imparano progressivamente a lasciare che quella divisione si faccia permeabile, liquida, mobile.
Il processo è delicato. Ogni minima soluzione, instabile. In ogni istante la tensione latente sembra poter esplodere, sembra poter scoccare la scintilla della rivolta, o partire l’arroccamento nel proprio mondo e nelle rispettive gerarchie.
Ma il mondo di tutti, detenuti e guardie è uno solo. Il carcere, certo. Ma anche quello in cui viviamo, sempre alle prese con settarismi, rivalità, paure, divisioni, intransigenze. E sempre, invece, bisognosi di un contatto umano, di una riservata confidenza, di una confessione a mezza bocca.
Di un momento di condivisione improvvisato e inedito con chi, di solito, consideriamo altro da noi.