Cinema
Essere John Malkovich: Il primo passo per la rivoluzione
Famoso per la sua eccentricità in fatto di film, Charlie Kaufman non ha mai negato o confermato le miriadi di teorie di critici, giornalisti, addetti dello spettacolo che hanno analizzato le sue opere. Per questo motivo, è interessante analizzarlo nuovamente ora, a distanza di oltre vent’anni.
Con la regia di Spike Jonze e la sceneggiatura di Charlie Kaufman, duo che ci meraviglierà a distanza di tre anni con il capolavoro “Il Ladro di Orchidee” (2002), viene elaborata un’opera filmica totalmente differente da tutte le altre. Per entrambi infatti era la loro opera prima; nonostante ciò, il film è stato candidato agli Oscar per la regia, la sceneggiatura più originale e per la miglior attrice non protagonista (Catherine Keener).
Dall’unione di questi due rivoluzionari, nasce un capolavoro di una prospettiva mai vista prima.
L’opera tratta di un burattinaio fallito e ambulante, Craig Schwartz, che un giorno, dopo l’ennesima negazione al suo talento, decide di trovare lavoro come archivista. Il lavoro, però, è situato al settimo piano e mezzo di un edificio e nel proprio ufficio troverà una porta con una galleria che gli permetterà di entrare dentro la mente dell’attore John Malkovich.
Charlie Kaufman sembra sviluppare la novità prospettica di Quentin Tarantino in Pulp Fiction (1994) colorandolo con il suo estro: il taglio prospettico che utilizza è la struttura interna del viso da cui lo spettatore assiste alla scena solo attraverso due fori, ovvero gli occhi.
Spike Jonze, invece, arricchisce e fortifica la trama complessa e a tratti pesante con un ritmo incalzante fitto di tanta suspense che riesce a magnetizzare lo sguardo di chi lo guarda, permettendo di non perdere l’attenzione sulla trama altamente articolata di elementi, riuscendo con estrema tecnica a valorizzare tutti gli elementi senza far prevalere nessuno di essi.
La scarsità di dettagli della macchina da presa, e la scelta di crearli quasi esclusivamente all’inizio del racconto, sulla scena dei burattini in strada (scena chiave, in quanto motrice di tutta la trama) sembra a tutti gli effetti un chiaro intento di sottolineare il senso metaforico di tutto il film. La genialità più eclatante, però, è la rappresentazione iniziale dell’istinto umano come piacere fisico e carnale, che accompagnerà da quel momento in poi tutti i personaggi principali della storia, ma non apparirà più nell’arte del protagonista.
Questo film, come anche i successivi di Kaufman, deve la sua particolarità agli infiniti livelli e sottolivelli di comprensione che l’opera ci dà e soprattutto ci sprona a sviluppare autonomamente.
Scena madre che esplicita questa intenzione è il paradosso creato da Malkovich che entra dentro la porticina, dunque nella sua stessa mente. Quello che vediamo è un mondo distorto in cui esiste soltanto lui, ogni parola detta dai personaggi è solo “Malkovich” e ogni figura possiede il suo volto. Il primo livello di comprensione, quello logico, ci impone una scelta di senso: Malkovich non può rimanere dentro la sua mente, in quanto passare da quella porta, si scoprirà in seguito, permetterà a chiunque si trovi all’interno della sua coscienza di possederlo per sempre compiuti i suoi quarantaquattro anni. Dunque il tunnel deve per forza impedire a Malkovich di restarci; nonostante ciò, secondo un altro livello di comprensione, potrebbe rappresentare la zona più profonda e pura della nostra mente, quella in cui un essere umano non potrebbe mai arrivare da solo. L’essere umano esiste in quanto ha una coscienza, e se riuscissimo ad entrare nella nostra stessa anima,non significherebbe vedere soltanto “se stessi”?
Addirittura qualcuno ha voluto vederci la metafora dei social media ante litteram. Questa teoria, dovuta al fatto che la porticina rappresenterebbe una visione limitata della vita (in coerenza con il taglio prospettico) e filtrata dal fatto di essere un’altra persona davanti agli altri, è interessante quanto poco probabile, ciononostante , non toglie dubbio alla stupefacenza dovuta all’immaginazione di questo sceneggiatore visionario.
Altro elemento curioso tra quelli usati da Kaufman è la giustificazione psicologica delle azioni dei personaggi quasi totalmente assente ma mai incoerente, anche se a primo impatto potrebbe confondere lo spettatore.
Il duo evita di inserire frasi che facciano comprendere i veri pensieri dello spettatore ad eccezione dell’inizio, rendendo lo svolgimento molto realistico. È come se dessero allo spettatore gli ingredienti senza inserire nessuna indicazione sulla preparazione allo spettatore; esistono le installazioni inserite nelle prime scene e successivamente chi guarda può soltanto abbandonarsi al fluire degli eventi e situazioni in costante divenire.
A confezionare perfettamente è stata la scelta degli attori. John Cusack (“Il cacciatore di Donne”, 2013), attore e sceneggiatore statunitense, interpreta il protagonista mostrandoci una profonda depressione che si sviluppa in una coerente psicosi. John Gavin Malkovich (“Impero del Sole”, 1987), attore statunitense, qui in vesti di un personaggio che in comune con la propria persona soltanto il nome. Inizialmente non voleva interpretare il ruolo, poiché anche lui inizialmente convinto di dover interpretare se stesso, bensì l’intenzione di Kaufman è quella di mostrare un fantoccio, un personaggio convenzionalmente famoso, dove proprio la caratterizzazione del personaggio è quella più superficiale, in quanto Malkovich nel film è solo un manifesto di quello che tutti guardano negli altri, ci viene mostrata solo la facciata del personaggio. Questo perché Kaufman vuole rappresentare come noi vediamo gli altri. L’interpretazione dell’ “altro” di John Malkovich è infatti ponderata quanto ricercata.
Cameron Diaz (“Charlie’s Angels, 2000; “The Mask – da zera a mito”, 1994), iconica attrice di San Diego con 4 candidature ai Golden Globe, una ai Premi BAFTA e 3 agli Screen Actors Guild (tra cui la candidatura come miglior attrice non protagonista ai Golden Globe e al premio Bafta e agli Screen Actors Guild proprio per il film in questione), interpreta la moglie del protagonista che tocca tutte le sfaccettature dell’animo femminile dalla moglie amorevole alla donna indipendente che sa che cosa vuole, un personaggio in un’evoluzione costante che non perde mai di interesse proprio per l’interpretazione di alta qualità dell’attrice. Infine abbiamo Catherine Ann Keener (“Truman Capote – A sangue freddo”, 2005), anch’ella attrice statunitense, che interpreta il vero personaggio motore di tutta l’opera. Maxine, colei che aggira, manipola, manovra, seduce e conquista gli altri personaggi, una burattinaia nella vita reale. L’interpretazione raffinata ed elegante avvalora ancora di più il personaggio.
Il ruolo delle donne in questo film ha una particolare attenzione, solo loro avranno un lieto fine. Un’ipotesi interessante tratterebbe della concezione sull’approccio della vita, diverso tra uomo e donna secondo Kaufman. Le donne svilupperebbero la propria intelligenza sul piano teorico mentre gli uomini su quello pratico. Dunque, nel momento in cui ci si vede da un’altra prospettiva, le donne svilupperebbero un desiderio materiale all’interno della mente ospite, e Lotte è un esempio, mentre gli uomini si ritroverebbero nel piano concettuale con un desiderio di conquista, da qui la facilità di Craig nel possedere Malkovich. Una delle pochissime affermazioni di Kaufman è stata proprio la centralità del ruolo delle donne, che infatti sono le uniche che non hanno mai varcato la porta (Maxine) oppure hanno deciso di abbandonare l’esperienza metafisica (Lotte).
Una cosa è certa, questo film a distanza di vent’anni continua a non lasciare indifferenti chi lo guarda.
Cinema
Le Giornate del cinema per la scuola
Al via le Giornate nazionali del cinema per la scuola: l’inaugurazione con il Sottosegretario Borgonzoni
La senatrice aprirà lunedì 4 novembre le Giornate nazionali del cinema per la scuola 2024, promosse dal Ministero dell’Istruzione e del Merito e dal Ministero della Cultura in collaborazione con Anec
Sarà la sottosegretaria alla Cultura, Lucia Borgonzoni, ad aprire lunedì 4 novembre le Giornate nazionali del cinema per la scuola 2024, promosse dal Ministero dell’Istruzione e del Merito e dal Ministero della Cultura in collaborazione con Anec (Associazione Nazionale Esercenti Cinematografici), nell’ambito del Piano nazionale cinema e immagini per la scuola. Per il secondo anno consecutivo, docenti e dirigenti scolastici di tutta Italia si riuniranno a Palermo, presso i Cantieri Culturali alla Zisa, trasformati fino al 6 novembre in una grande “Città del cinema per la scuola”. Il programma prenderà avvio alle 15:00 con la cerimonia inaugurale al Cinema De Seta, promossa dal Ministero dell’Istruzione e del Merito e dal Ministero della Cultura.
L’inaugurazione con il vice ministro
La cerimonia sarà aperta dai saluti del sottosegretario alla Cultura, Lucia Borgonzoni, e vedrà la partecipazione del direttore generale della Direzione Generale per la Comunicazione e le Relazioni Istituzionali del Mim, Giuseppe Pierro, e di Bruno Zambardino, referente per il Piano Nazionale Cinema per la Scuola presso la Direzione Generale Cinema e Audiovisivo del Mic, che illustreranno le novità del Piano Cips. Alle 16:30, avrà luogo la presentazione dei film in uscita destinati al pubblico scolastico, a cura di Circuito Cinema Scuola e delle case di produzione e distribuzione Universal Pictures e Warner Bros, che presenterà il suo ultimo film d’animazione: Buffalo Kids di Juan Jesús García Galocha e Pedro Solís García (Spagna 2024, 93′), uscito nelle sale il 31 ottobre.
Alle 20:30 si terrà l’evento di punta della prima giornata: la presentazione in anteprima nazionale del film Criature (Italia 2024) di Cécile Allegra, tratto dall’omonimo romanzo della stessa autrice e previsto nelle sale dal 5 dicembre. Al Cinema De Seta, lunedì sera, sarà presente la regista Cécile Allegra, accompagnata da un collegamento in diretta con l’attore protagonista Marco D’Amore, noto per il suo ruolo nella serie Gomorra.
Fonte: cinecittanews.it
Cinema
REAL al Festival dei Popoli
‘REAL’, al Festival dei Popoli l’anteprima del film di Adele Tulli
Una produzione Pepito Produzioni e FilmAffair con Rai Cinema e Luce Cinecittà in collaborazione con Les Films d’Ici. In sala dal 14 novembre con Luce Cinecittà
Arriva nei cinema dopo l’acclamata prima mondiale all’ultimo Festival di Locarno e il Premio della Giuria al Festival del Film di Villa Medici dedicato al rapporto tra cinema e arti contemporanee, REAL, il nuovo film di Adele Tulli. Real sarà presentato in anteprima al 65. Festival dei Popoli, il più antico appuntamento del cinema documentario d’Europa, domenica 3 novembre alle 19.30 al Cinema La Compagnia di Firenze, alla presenza della regista.
Dopo il successo della sua opera prima Normal (presentato alla Berlinale, vincitore della Menzione Opera Prima ai Nastri d’Argento e acclamato in numerosi festival internazionali), Real sbarca sugli schermi il 14 novembre, distribuito da Luce Cinecittà. Il film è prodotto da Pepito Produzioni e FilmAffair con Rai Cinema e Luce Cinecittà, in collaborazione con Les Films d’Ici. La distribuzione internazionale è affidata a Intramovies.
Adele Tulli scrive e dirige un nuovo viaggio visionario, poetico e inatteso dentro un mondo in cui siamo quotidianamente immersi, talmente abituale da non farci più rendere conto di quanto sia in realtà sconosciuto ed estraniante: il mondo digitale. Una realtà che ha rivoluzionato le vite di tutti e che il documentario esplora con lenti tecnologiche, creative e relazionali. Con uno sguardo inedito e curioso, Real ci porta in un territorio ineffabile, alieno e al contempo familiare.
Scritto e diretto da Adele Tulli, REAL vede la fotografia di Clarissa Cappellani e Francesca Zonars, il montaggio di Ilaria Fraioli e Adele Tulli, le musiche originali di Andrea Koch e la produzione creativa di Laura Romano. È prodotto da Agostino Saccà per Pepito Produzioni, Valeria Adilardi, Luca Ricciardi, Laura Romano e Mauro Vicentini per FilmAffair, in collaborazione con Charlotte Uzu di Les Films d’Ici.
La sinossi di Real
Reale [dal lat. mediev. realis, derivato di res “cosa”] – 1. Che è, che esiste veramente, effettivamente e concretamente. La nostra concezione comune di “realtà” era fatta di oggetti tangibili, di relazioni corporee, di esperienze ed eventi in spazi fisici. Tuttavia, un processo inarrestabile di accelerazione digitale ha trasformato radicalmente il nostro pianeta, le nostre società e noi stessi: i dispositivi digitali non sono più semplici strumenti, ma porte d’accesso a una nuova realtà. I nostri smartphone e computer ci conducono in un universo aumentato in crescita esponenziale, che esperiamo quasi sempre senza contatto fisico. Un mondo digitale dove trascorriamo la maggior parte del nostro tempo, cercandovi felicità, soddisfazione, rapporti, conoscenza e nuove esperienze. Ma allora, cosa è oggi ‘reale’?
R E A L è un viaggio filmico, visionario e coinvolgente nel mondo disincarnato della rete, un multiverso digitale parallelo in cui ogni cosa esistente è trasformata dalla fisica degli atomi alla logica dei bit. È un documentario creativo che esplora la trasformazione dell’esperienza umana nell’era digitale, facendo luce sui molti aspetti, a tratti perturbanti, della vita iperconnessa: i protagonisti – umani, robotici, virtuali – affrontano relazioni digitali, lavori virtuali, cybersessualità, abitazioni e città futuristiche, automatizzate e sorvegliate. Raccontano una cultura dell’autorappresentazione, di nuove dipendenze e patologie, di alienazione e isolamento, ma anche di identità libere dai confini fisici del corpo.
R E A L adotta uno sguardo sperimentale, utilizzando poeticamente le stesse tecnologie che definiscono il mondo digitale: visori, webcam, smartphone, videocamere di sorveglianza e sguardi meccanici che ci accompagnano in un nuovo modo di vivere la realtà. Senza risposte o giudizi, ma con la curiosità di uno sguardo che esplora un nuovo pianeta, Real ci conduce al di là e al di qua di un confine incerto.
Cinema
Pupi Avati e il conformismo
Pupi Avati, o “l’anticonformismo del conformismo”
La presentazione del volume ‘Pupi Avati fuori dal cinema italiano’ al Museo Etrusco di Roma, alla presenza dei fratelli Avati. Steve Della Casa intervista il regista e l’autore del libro, Massimiliano Perrotta
“Il mio libro inizia con una cena a casa di Laura Betti, dove Pupi Avati era appena arrivato da Bologna con due film che erano andati male. E proprio lì, dove c’erano Bellocchio, Bertolucci, Moravia, Pasolini… gli scappò detto ‘io sono democristiano’: la cosa più conformista, che però in quel consesso coincideva col massimo dell’eresia. Su questo paradosso, su questa contraddizione, lui ha costruito la sua carriera e io ho costruito il mio libro”.
Così Massimiliano Perrotta presenta al pubblico il suo Pupi Avati fuori dal cinema italiano in una gremita Sala della Fortuna del Museo Etrusco di Villa Giulia a Roma. Una biografia decisamente sui generis, appena uscita con Edizioni Sabinae, che in otto capitoli raccoglie altrettanti articoli già pubblicati dall’autore catanese sull’’Huffington Post’. Accanto a lui il regista, fresco della Laurea ad Honorem in Italianistica appena conferitagli all’Università Roma Tre, mentre in prima fila siede l’inseparabile fratello, Antonio Avati.
A moderare l’incontro è Steve della Casa, critico cinematografico e direttore artistico, storico conduttore radiofonico di ‘Hollywood Party’ nonché regista, autore e Conservatore della Cineteca Nazionale.
“L’anticonformismo del conformismo è la chiave di lettura che il libro dà alla carriera di Pupi Avati”, rimarca Della Casa, dopo aver presentato il regista, accolto da un lungo applauso, come ‘il più grande affabulatore che ho conosciuto nella mia carriera’: “una carriera che ha parecchi punti che sorprendono, come dimostra il volume stesso. Ad esempio quando qualche anno fa ho scoperto che gran parte dell’ultimo film di Pasolini, Salò, è stato scritto da Pupi Avati, rispetto ai suoi lavori successivi mi sembrava una cosa eccentrica. Invece poi non lo è affatto. Questo libro è molto interessante e controcorrente, perché è una biografia non esaltatoria del soggetto e non ha un’esigenza di completezza: racconta un preciso punto, la posizione eccentrica di Pupi Avati all’interno della galassia del cinema italiano”.
“Il libro di Massimiliano (Perrotta, ndr) apre con la storia di quella cena, ma non è che io sono arrivato là e ho detto così, dal nulla, ‘sono democristiano’”, precisa ridendo Pupi Avati, che prende la parola confermandosi esattamente nel ruolo in cui è stato presentato e snocciolando anche in questa occasione decine di aneddoti più che divertenti sui suoi 85 anni di vita, di famiglia e di cinema, spesso mimando il racconto la voce con vere e proprie gag.
“Quello era il risultato di una serie di considerazioni di noi che arriviamo a Roma (io e mio fratello Antonio, ndr) con due ‘cadaveri’ di insuccessi, come allora si diceva”, continua il regista. “Anche dietro alla stessa scelta di questo piccolo nome, ‘Pupi’ Avati, c’era una cultura, un mondo, dei genitori, dei nonni, delle zie, la campagna vissuta nel primo dopoguerra… C’erano le favole contadine terrorizzanti che ci raccontavano prima di andare a letto nelle camere scricchiolantissime, come la favola del ‘prete donna’… E poi c’era la chiesa, l’educazione cattolica preconciliare, piena di inferno e di diavolo dappertutto. Ecco, avendo tenuto dentro di me con riconoscenza quell’immaginario che si è andato a formare laggiù, in quel tempo remoto, con una grande nostalgia… Perché allora non c’era niente, a parte i campi… E allora riempivi quel niente con l’immaginazione, col racconto orale, che era fondamentale. Magari alcuni dei miei parenti erano pressoché analfabeti, non avrebbero mai saputo scrivere… ma sapevano raccontare. E saper raccontare – come sapeva fare nostra madre, una narratrice fantastica, che da quando salivamo in macchina da via Saragozza a Bologna fino a Roma non si interrompeva un minuto – era una cosa preziosissima. Questa è l’Italia dalla quale vengo, che non aveva quasi nulla, ma aveva tantissimo, perché ti permetteva di immaginare, che oggi è una cosa quasi proibita”.
Tornando al libro, anche per chi non abbia letto in precedenza i suoi articoli online, lo stile del racconto di Perrotta appare esplicito fin dalle prime pagine e non lesina – ora qua ora là – personalissimi epiteti ai grandi maestri della settima arte, destinati a far discutere. Ma anche nei titoli scelti per dividere il volume: si va da Un democristiano nel salotto – dove si racconta la famosa cena di cui sopra – per poi passare a Il Truffaut dell’Italietta, La poesia democristiana, o Agli antipodi del fighettismo, all’interno del quale, ad esempio, l’autore scrive: “Glamour: ecco una parola che non si addice al cinema di Pupi Avati. Egli si colloca agli antipodi del fighettismo artistico e di quello sociale (…). Mentre il fighettismo idolatra i vincenti, Avati simpatizza per i candidi, per gli insicuri, per gli sfigati”.
“Pupi Avati è fuori dal cinema italiano per una ontologica estraneità agli schemi culturali che nell’ultimo mezzo secolo lo hanno dominato”, scrive ancora Perrotta nel primo capitolo: “non ha fede nella storia, non crede nel progresso, non lotta contro il potere, non gli interessano i temi sociali, non si batte per le nobili cause, non vuole denunciare nulla, non racconta la crisi dell’Occidente, non segue le mode, non ostenta citazioni, non è laico. Per la stessa ragione il cinema italiano ama poco Pupi Avati: lo tratta con condiscendenza, premia raramente i suoi film, fatica a riconoscergli lo status di autore con la a maiuscola. (…). Il cinema di Pupi Avati non va rivalutato o sdoganato: va letto con occhi vergini, con occhi postnovecenteschi, con gli occhi di domani”.
“Il cinema di Pupi è personalissimo, senza quella aggressività che altri autori cercano di imporre sulla materia narrata e sulla realtà con la loro cifra”, continua l’autore del libro in sala. “Anche nei riguardi del film horror, lui lo fa a tutti gli effetti, rispettandone i codici ma poi arricchendone il contesto con il suo sguardo. Anche in Salò, certo, c’è la sua firma, ma discreta: non c’è nulla che lui faccia, anche per la tv, che non rispetti quel che gli viene chiesto, e che però sia al tempo un film di Pupi Avati a tutti gli effetti, con tutte le sue cifre stilistiche, ma sempre con discrezione, con quel senso della misura che secondo me è quello che, se da un lato lo rende amabile, lo ha visto penalizzato da parte della critica. Ma il tempo secondo me dà ragione a lui”.
“L’argomento del film di genere, presente nel libro, è una preoccupazione che Pupi ha a livello di prospettiva”, precisa Steve Della Casa. “È molto attento anche a quello che avviene anche dal punto di vista commerciale nel cinema italiano, e alla sua capacità di trovare un pubblico. Praticare il cinema ‘di genere’ è stata una caratteristica del cinema italiano negli anni del suo massimo splendore. Diceva Giuliano Montaldo che se si potevano fare i film di Bertolucci e Pasolini era perché si facevano quelli di Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, che incassavano, pensate, quasi il 10% del totale nel cinema italiano, consentendo agli altri di sperimentare. E poi c’era un’osmosi tra cinema d’autore e di genere, che si confrontavano continuamente. Nell’horror che fa Pupi Avati, ad esempio, gli effetti speciali hanno un ruolo piccolissimo, il suo è un horror di atmosfera: la paura ti arriva da altre cose”.
A chiudere la pubblicazione, un’interessante ‘raccolta nella raccolta’ tratta da libri, riviste e/o quotidiani, intitolata Fior da Fiore, che a partire dal 1970 fino al 2024 riporta i punti di vista delle più note firme del grande schermo nei confronti del cinema di Pupi Avati: Miccichè, Farassino, Bignardi, Bertetto, Caprara (Valerio), Anselmi, Fofi, Morandini, Ferzetti (Fausto), Rondolino, Tornabuoni, Crespi, Sarno, Kezich, Nepoti, Brunetta, Mereghetti, Rondi, Mancuso, Salvagnini, Giusti, Zappoli e Siniscalchi.
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